Sorrisi di Infanzia a Gaza

Questo articolo è stato scritto e pubblicato da Maria Angelica Maoddi.

E mentre le granate sgretolano il grano, le ossa e i nidi,
sull’inaridita spiaggia di Gaza, sbocci tu
recisa Infanzia, oh Infanzia rigogliosa
e sorridi ancora al buio dell’alba abbrustolita!
Tra strepitii di razzi e stridii di mitragliatrici,
sorridi, sorridi tu Infanzia alla marina brezza che culla i sogni dei nostri fanciullini!
E lì sulla sabbia scolorita i nostri bambini
colorano di aquiloni le affumicate nuvole,
saltellano, danzano, corrono e si rincorrono per vivere tra le fiamme di morte.
Come è dolce il loro improvviso girotondo sulle macerie delle scuole!
Ruotano, ruotano insieme condensando orfani sorrisi resilienti
in un unico vortice immateriale di infinita tenerezza,
che si materializza nella finitezza
dei pargoletti occhi, quelle perle fragili!
Occhietti che tremano, tribolano, trivellati da un missile.
Come coriandoli carbonizzati quei sorrisi frantumati
si miscelano con le ossa e la terra
sul mare di sangue puro che ci bagna di impotenza, ci sotterra.
Ma, impregnano l’aria arroventata di Gaza quei sorrisi
galleggiano ancora compatti e integri tra le fessure della memoria mitragliata,
aderiscono sul cuore gravido di asprezza e morso dalla nostalgia.

Aisha Kais, 24anni, è nata a Roma, il papà è palestinese e la mamma calabrese. Si è diplomata al liceo delle Sc. Umane, presso il quale ha scoperto la sua passione per la scrittura. Si è laureata con lode in Farmacia, facoltà magistrale di 5 anni abbastanza ostica, scelta per le opportunità lavorative. È stata premiata a circa una quindicina di Concorsi letterari, spesso nazionali. Oggi per assecondare la sua passione per la scrittura, si è iscritta alla facoltà di Comunicazione Scientifica biomedica.

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Franco Basaglia E Il Disagio Mentale. Riflessioni Su Cosa Resta Della Legge 180.

Questo articolo è stato scritto e pubblicato da Maria Angelica Maoddi.

Recentemente, il 29 agosto, in occasione dell’anniversario della morte   di Franco Basaglia medico -psichiatra, neurologo, docente e direttore dell’Ospedale per le malattie mentali di Gorizia. sono state sollevate critiche assieme a dei riconoscimenti di valore. La critica di numerosi uomini di scienza è che la società, in questa situazione è priva di contenitori, nel senso che mancano luoghi e spazi per la convivenza con il portatore di disagio psichiatrico che a volte le strutture dedicate si limitano alla diagnosi e cura di tipo ambulatoriale.

Sono passati 43 anni dalla promulgazione della legge 180, ideata da Basaglia, L’ indicazione della legge avrebbe dovuto abolire i manicomi come istituzione totale e restituire dignità ai malati che vi erano rinchiusi in condizioni disumane. Seguirono i decreti di legge applicativi che impedirono di rinchiudere una persona nelle strutture manicomiali sia pubbliche che private, senza comprovata necessità clinica, regole racchiuse nel sistema TSO (trattamento sanitario obbligatorio). La legge progressivamente avviò lo smantellamento del manicomio come istituzione unica in favore di una capillare e frammentata organizzazione dei servizi psichiatrici sul territorio nazionale regolamentati da norme molto diversificate da regione a regione. La legge ispirata da grandi ideali libertari cambiò l’approccio della psichiatria mettendo al centro il malato nella dignità e diritti come persona e non la malattia, con un’attenzione alla sua storia della sua vita, alla sua interiorità, favorendo le relazioni e la partecipazione sociale. Una cura “umana” sono principi cardine dell’approccio di Basaglia e si misero in moto anche rivolgimenti culturali che si estendevano a tutti i campi della nostra società

Il paziente psichiatrico nei servizi del territorio fu coinvolto in un percorso unico, tutelato da una presa in carico capillare e trasversale alle singole regioni. Le indicazioni dovevano superare la gestione “verticale” della cura caratteristica delle istituzioni manicomiali.

Dopo tanti rivolgimenti sociali e culturali cosa resta della legge 180? L’attuale rete dei servizi del territorio con delega delle regioni è costituita dalla frammentarietà dei servizi di salute mentale che prima della legge 180 erano rigidamente organizzati e isolati. L’ isolamento era rispondente all’ “igiene” sociale in funzione difensiva, supponendo di proteggere la popolazione sana dai rischi del contatto con chi invece è affetto da turbe mentali. Attualmente i servizi sono rappresentati da reti di strutture tra di loro collegate, attraverso i dipartimenti di salute mentale che decidono il piano di cura da impostare con il singolo utente. Nello specifico, se la persona versa in uno stato in fase acuta, viene proposto un ricovero presso un reparto ospedaliero (che a volte avviene per accesso diretto da pronto soccorso); se invece la persona cronicizzata necessita di effettuare un percorso di cura, si affida alle strutture residenziali che possono ospitare la persona per periodi più lunghi, e con la possibilità di diversificare i trattamenti che sono richiesti. Inoltre, esistono anche centri diurni o anche ambulatoriali che consentono ad alcuni di poter ricorrere a consulenze mediche o psicoterapiche mantenendo i rapporti sociali nel contesto.

Nella società civile storicamente e ciclicamente si affacciano le tendenze conservatrici e segregazioniste che coinvolgono tutta la società e non solo la psichiatria.  Lo stesso Basaglia per poter elaborare le sue proposte analizzava il contesto storico -culturale e la promulgazione della legge 180 del 1978 avviò buone prassi nel campo della psichiatria, superando alcune barriere concettuali nelle teorie sulla malattia mentale. Le riviste scientifiche prestigiose, quali Lancet avevano annoverato allora fino agli anni Novanta la sanità italiana come eccellenza mondiale collocata al dodicesimo posto in termini di efficienza, costi e servizi erogati. Durante i 40 anni, il quadro politico e sociale viene sottoposto a nuovi cambiamenti che hanno investito lo Welfare (stato sociale) e lo sgretolamento del S.S.N.  e di conseguenza, la rete dei servizi psichiatrici, aggravando le forme della malattia mentale dando luogo a nuove cronicità e si è perso tutto l’entusiasmo delle idealità della legge 180. Per quanto riguarda la psichiatria ancora oggi permane in parte in forma residuale l’impostazione democratica e inclusiva.

Nella situazione odierna, l’insufficienza delle risorse dettate dai tagli ai finanziamenti delle strutture e la diminuzione del personale sanitario hanno influito sulla gestione della malattia mentale, ed anche le impostazioni scientifiche sono critiche sia per su come si origini ed anche su come si possa gestire un problema di tipo psichiatrico rigettando l’approccio troppo idealistico. Questa considerazione si estende anche a tutte le diversità che spesso producono atteggiamenti di diffidenza, paura e soprattutto è assente una “reale” riabilitazione e ricollocazione comunitaria. I pazienti psichiatrici oggi vivono per lo più in famiglia e quando questa manca o non può farsi carico per situazioni gravose sono inseriti nel circuito della psichiatria residenziale territoriale dove i trattamenti non sono lineari ma alternano una collocazione in casa-famiglia e/o a struttura residenziale- Il percorso che segue è lungo e frammentato da rinnovati ricoveri in strutture ospedaliere quando si presentano crisi acute. I trattamenti non sono risolutivi e le famiglie vengono investite di un ruolo genitoriale protratto in quanto la persona con disagio non sopravvive in autonomia. La Legge 180 viene elusa innanzitutto quando le famiglie richiedono la scorciatoia della “reclusione” e del controllo, rigettando la cura territoriale, delegano mettendo la tecnica medica sopra il vivere delle persone siano essi malati, famiglie o comunità, cercando di ricreare in piccolo dei manicomi in strutture residenziali isolate molto diffuse in realtà.

dr. M. Angelica Maoddi, psicoterapeuta

Fame D’Amore

Questo articolo è stato scritto e pubblicato da Maria Angelica Maoddi.

Al S. Maria della Pietà era giunta una donna nel 1969, coperta di stracci che avevano rimediato i carabinieri, si dimenava e cercava sempre di svestirsi. Era stata “raccolta” per strada che girava per le vie di Roma e a Piazza Esedra era completamente nuda, diceva di voler fare la rivoluzione e gridava cantando la Marsigliese: “Allons’ enfants de la patrie…”. In un primo tempo, i passanti, alla sua vista si fermavano incuriositi e raccogliendosi in circolo, ridevano divertiti e la incitavano ma poi, sopraggiunta la volante della polizia, scappavano. Nadia continuava a stringere uno straccio di bandiera e si faceva portare di peso fino alla neuro del Policlinico Umberto I. Gli infermieri del presidio sanitario la conoscevano come recidiva a questi comportamenti: “A rieccola! Abbiamo perso la pace!”, S’è imbucata di nuovo qui… A Nando! c’è il tuo amore!”. E Nando: “N’atra votta. Ah…ma ci ha preso gusto?” Ogni tanto, qualcuno raccontava la sua storia di disgrazie che le erano accadute tutte le volte si aggiungevano dei particolari inediti; non si sapeva più distinguere se veritieri oppure inventati per rendere più colorita la storia, il racconto concludeva che Nadia aveva reagito alle violenze subite da uomini senza scrupoli con questi strani comportamenti di pubblico scandalo.

Nadia proveniva da Gaeta e si era trasferita a Roma al seguito di un amante, un ufficiale di complemento dell’esercito di stanza nel presidio militare del posto, avendo in seguito ottenuto il trasferimento nella capitale, l’aveva convinta a seguirlo con la promessa che l’avrebbe poi sposata. Giunta nella capitale scoprì che l’ufficiale aveva già famiglia con due figli e lei si trovò sconvolta e disperata a vagare per la stazione Termini, esposta ai rischi di profittatori, senza soldi e con il peso della vergogna verso i suoi familiari che non poteva più contattare. In preda alla paura e sprovveduta, si era rivolta ai carabinieri, i quali a sua volta le avevano offerto protezione e un alloggio presso una pensione nei dintorni di Piazza S. Maria Maggiore. Un carabiniere che si chiamava Alberto. in particolare, mostrava del tenero nei suoi confronti e per qualche mese si mostrò affettuoso, se ne invaghì e quando le effusioni divennero rapporti sessuali diedero il frutto di restare incinta. Nadia era contenta di tenere il bambino ma Alberto la minacciò di lasciarla per le condizioni precarie in cui vivevano entrambi e la costrinse ad abortire rivolgendosi ad una “mammana” nei pressi del quartiere Quadraro. La donna, Maria Teppena ex- levatrice, praticava aborti clandestini dietro un lauto compenso.

In realtà pensava di aiutare il prossimo ed era considerata dalle persone del quartiere una benefattrice alla quale rivolgersi per qualsiasi consiglio e tutti la trattavano con un certo riguardo. Alberto accompagnò Nadia dalla “mammana” con la promessa che sarebbe stato facile liberarsi del bambino non sapendo che oramai Nadia aveva superato il quinto mese di gestazione e fu infatti un difficile intervento. La stessa “mammana” espresse le sue perplessità nel procedere a procurare l’aborto, con disappunto fu costretta a farlo sotto la minaccia di doverla altrimenti carcerare. Dapprima, la “mammana” le somministrò una forte dose di valium e poi le introdusse in vagina lo speculum per tenere allargata la vulva per poi arrivare all’utero dove infilò dei ferri chirurgici, vacuum, a cucchiaio per il raschiamento. Il feto già molto grande faceva resistenza e l’operazione fu più difficile del previsto. La stessa “mammana”, si mise paura di far morire madre e figlio ed impose al giovane carabiniere di portarsela via. La donna, ex-levatrice, si rese conto dei rischi, sudava freddo e si lamentava di non farcela: “Com’è possibile non capire?

Al gabbio ci finiamo tutti e questa poveretta al camposanto!”, e continuando: “Non posso continuare! Disgraziato! Vedi come è attecchito! È un bambino! Magari il tuo!” “No, no… è un delitto! Portatela via!” Le somministrò la morfina e gli intimò di fuggire. “Andate via a partorire da un’altra parte!” Alberto la portò in una baracca isolata nei pressi di Porta Furba, dove partorì, in preda alle contrazioni dolorosissime e tramortita da forti dosi di morfina. Era stata lasciata da sola, si svegliò in una pozza di sangue, era fuoriuscito il bambino avvolto dalla placenta e tutto il materiale fetale. Nadia svenne e rinvenne, poi strillò chiedendo aiuto e perdono alla Madonna. “Madonna mia, perdono, mi farò suora!” “Mamma aiutami! Dio perdonami che t’ho offeso!” I dolori lancinanti proseguivano e lei, più volte perse conoscenza. Ora balbettava, ora gridava… Alle urla disumane alcuni muratori che lavoravano ad una casa nei dintorni si fecero coraggio accorsero e s’avvicinarono alla casa abbandonata dove giaceva Nadia. Si resero conto che la donna versava in indicibili sofferenze, chiamarono l’autoambulanza dal prossimo bar e la portarono all’ospedale S. Giovanni. Nel frattempo, Alberto spaventato era già scappato. In ospedale non riuscirono a identificarla, gli stessi carabinieri che la conoscevano, per solidarietà con il collega Alberto, negarono di averla mai vista e per giorni rimase tra la vita e la morte colpita da setticemia.

Non ricordò più cosa le era successo e finì col frequentare il quartiere Tuscolano- Quadraro dove l’avevano trovata prima del ricovero. Era mentalmente compromessa, non ricordava niente e farfugliava parole sconnesse e senza logica. Fu accolta da un’anziana donna Gina Belsito, su consiglio del maresciallo in una casupola in cambio della compagnia e dei servizi domestici di pulizia. Con il passare del tempo, Nadia si riprese e cominciò a riparlare e fisicamente rifiorì. Aveva dei bei lineamenti e riacquistò un corpo avvenente. La vita precedente e le disgrazie sembravano essere ormai svanite. Il fornaio Corrado presso il quale Nadia si recava a fare spese per la vecchia la notò e cominciò a farle una corte serrata. La invitò al Cinema, chiedendo permesso alla signora Gina che l’aveva sotto tutela. Il giovane volendo fare le cose per bene, fu molto galante e delicato. Portò le due donne in trattoria ed offri il pranzo con l’intenzione di fidanzarsi.  “Sig.ra Gina, sua nipote mi piace assai, voglio renderla felice. Non so se lei è d’accordo, posso offrirle una sistemazione, ho delle economie, dei risparmi e possiamo sistemarci e costruire una famiglia”. La signora Gina replicò: “Come corri figlio mio, non avere fretta, prima conoscetevi, se poi non andate d’accordo?” E lui: “Io la rispetto, non vi dovete preoccupare! Sono stato educato bene dalla mia povera mamma! So come si trattano le donne, non sono un materialone!”. “Nadia che dici tu? T’ho mai mancato di rispetto?” E lei: “Ci mancherebbe! Ti manderei subito a quel paese, caro mio, io non sono una donna di strada!” – e lui replicò: “Ma no, non intendevo dire quello! …Mi vergogno… credevo ti facesse piacere, lasciamo perdere… ancora è presto”.

 Le cose andarono avanti così per mesi, uscirono insieme come fidanzati timorosi e pudichi. Finché il rapporto amoroso si risolveva in baci e carezze tutto procedeva tra Corrado e Nadia. Un giorno dopo mesi Corrado le chiese di dormire insieme a casa sua, dato che oramai erano in procinto di sposarsi. Lei acconsentì sulla fiducia, raccomandandosi di non usare nessuna violenza, ma quando furono nel mezzo del rapporto sessuale, con la penetrazione fu come avere davanti agli occhi tutto il suo vissuto precedente. Si mise a strillare come un’ossessa per la paura, accusandolo di volerla uccidere. Cominciò a dare calci e pugni al povero Corrado che spaventato si scusava e poi vedendo che l’agitazione di Nadia non trovava tregua, andò a chiamare la vecchia signora Gina. La signora, credendo che l’avesse stuprata, lo rimproverò, minacciando di denunciarlo. Al ritorno, trovarono la casa sottosopra, e Nadia si dimenava per terra tutta nuda e strappava tutto ciò che le era vicino: vestiti, lenzuola cuscini, coperte. Non ce la fecero a tranquillizzarla e chiamarono la neuro. Di nuovo Nadia, non riconosceva nessuno e farfugliava parole senza senso. Le somministrarono alte dosi di sedativo. Non rispondendo alle terapie, fu trasferita al S. Maria della Pietà e vista la continua agitazione, lì cominciò il travaglio di terapie con l’elettroshock.

Nessuno cercò più Nadia, confinata al S. Maria della Pietà, fu catalogata con il nome che era riuscita a dire, dimenticata ed invisibile al mondo. Le sue occupazioni in manicomio furono di costruire pupazzi di stoffa ai quali si dedicava cullando e cantando una nenia per i bimbi. Le suore impietosite, avevano capito che soffriva per mancanza dei figli e pensarono anche che forse le fossero stati sottratti come lei affermava quando aveva momenti di lucidità. Raccontava dei figli che le avevano rubati per venderli in varie parti del mondo. Alcuni uomini malvagi con la divisa l’avrebbero ingannata per portar via quello che ora aspettava. Si infilava sempre gli stracci, all’altezza del ventre e tratteneva il malconcio malloppo con le braccia, mimando di aspettare un bambino e passeggiava nel giardino. Salutava in giro, augurandosi da sola il buon esito della gravidanza. Divenne simpatica a tutti, al passaggio tutti, compresi i degenti avevano imparato a salutarla e a farle gli auguri, quando le si chiedeva chi fosse il padre, rispondeva che era un ufficiale francese, Jean Gabin e che finito il turno di servizio di guardia, l’avrebbe portata via. Ogni tanto aveva crisi di pianto inconsolabile e non dormiva scambiando il giorno per la notte. Fu sottoposta a frequenti trattamenti di elettroshock.

Le suore, facevano fatica a tenerla pulita, ormai non tratteneva più i bisogni corporali e non ci teneva più in condizioni di decenza, fu infine collocata nel padiglione dei sudici. Perse tutti i denti e l’aspetto fisico era di una persona invecchiata precocemente. Con i cambiamenti epocali di cura dieci anni più tardi, verso la fine degli anni ’70, si aprirono i cancelli del manicomio. Medici, infermieri, studenti e volontari si adoperarono per superare una visione di cura assistenziale che induceva alla passività dei degenti, indotta o aggravata anche dalla sindrome da istituzionalizzazione. Gli operatori, trovarono una situazione molto critica al S. Maria della Pietà, ma l’umanizzazione in atto nelle cure, incoraggiò un atteggiamento responsabile di sostegno ai degenti. Fu un periodo felice di proposte ed iniziative dentro il presidio manicomiale sia con l’abbattimento dei cancelli che delle reti di reclusione tra i reparti. Si stimolarono sia la partecipazione attenta a cominciare e sia le iniziative di svago per alleviare la sofferenza, inoltre si avviarono laboratori attivi di arte e di teatro. In seguito, ci fu una ricerca di contatti per coinvolgere i parenti dei degenti, alcuni risposero positivamente ed i malati meno gravi vennero ricollocati nelle famiglie di provenienza e seguiti dalle strutture di territorio.

Altri degenti cronici, non avendo parenti e vivendo in gravi condizioni, abituati alla sorveglianza e alla passività, rimasero per anni dentro la struttura manicomiale provvisoria come residenza protetta, in attesa di un ricollocamento in case -famiglia. Tra questi degenti ci fu Nadia che viveva in condizioni critiche, reputata “incapace di intendere e volere “, intontita dagli elettroshock ed addomesticata dagli psicofarmaci, sembrava refrattaria ad ogni tipo di intervento che la rendesse più autonoma. Nadia aveva bisogno di sostegno quotidiano e continuo con affidamento totale, doveva avviarsi un recupero di ripresa anche nella gestione dei bisogni fisiologici, si doveva   gestire come con una bambina. Negli anni ’80, qualche progresso fu conseguito, almeno nel reimparare a controllare i bisogni e tenersi più pulita, mangiando con regolarità e curandola anche nell’aspetto fisico, le fu reintegrata la dentiera e poteva mangiare cibi solidi. Nadia fu una degli ultimi a lasciare la struttura protetta negli anni ’90. Le suore, che nel frattempo erano fatte uscire dalla gestione infermieristica dell’Ospedale pubblico del S. Maria della Pietà, continuarono a prendersene cura e venne in seguito affidata all’ Istituto del S. Giuseppe al Nomentano. Ella continuò a vivere raccontando a tutti dei figli che aveva e tutti furono convinti si trattasse di verità.

Sinossi Del Romanzo Io E Il Mio Ciclone

Questo articolo è stato scritto e pubblicato da Maria Teresa Fumanò e Maria Angelica Maoddi ED.ERACLE.

IO E IL MIO CLONE, definibile come un romanzo di scienza/fantascienza, è nato dalla fantasia e dalla professionalità di una psicologa e di una neurologa e psichiatra.

La protagonista Laura, di quaranta anni, è una scienziata che viene clonata e che alleva il suo clone, ignaro della sua origine, come se fosse sua figlia cercando di farle trascorre una infanzia e una adolescenza perfette, diverse da quelle che sono state le sue.

Difatti lei proviene da un ambiente familiare disturbato che ha costretto suo fratello a fuggire a soli quattordici anni e lei a sposarsi molto giovane.

In accordo con i suoi colleghi di laboratorio tiene un diario in cui annota tutte le tappe della crescita della bambina Beatrice che si dimostra molto precoce.

Beatrice a venti anni scopre di essere un clone e, dopo aver litigato con la sua pseudo-madre, fugge in America a New York dove si rivolge a un laboratorio specializzato in clonazioni per vendere tutto il progetto dell’esperimento che ha determinato la sua nascita, ma presto viene tenuta prigioniera per essere a sua volta clonata.

Lei si assoggetta in quanto teme che venga resa pubblica la sua particolare genesi.

 Durante il periodo di reclusione si accorge di stare invecchiando in maniera rapida tanto da assomigliare sempre più a sua madre e si rende conto che la sua precoce decadenza è dovuta al fatto che le cellule da cui è stata formata erano quelle di una donna già avanti con gli anni.

I suoi cloni sono delle bimbe che moriranno a soli tre mesi ma anche loro vengono clonate e i cloni successivi generati da cellule più giovani vengono affidati a famiglie residenti in diverse parti del mondo.

Una volta liberata Beatrice fa ritorno a casa in Italia, pretendendo da sua madre che venga arrestato il suo processo di invecchiamento e che le venga restituita almeno un’apparente giovinezza fisica.

Per il raggiungimento di tale scopo le vengono proposte delle soluzioni a dir poco aberranti che lei rifiuta e che la portano a un punto di esasperazione tale da uccidere la madre e da occultarne il cadavere lontano e in modo tale che non venga mai scoperto.

Sfinita fisicamente e psicologicamente capisce che per lei non vi è altra soluzione che il suicidio.

Prima di morire rivela il suo delitto a Elio, figlio di Laura che l’aveva scambiata per sua madre.

Elio che assiste alla sua fine che avviene con la decomposizione totale del suo corpo per non giustificare a nessuno la straordinaria trasformazione della morta dà fuoco al suo letto con una sigaretta facendo credere che sua madre si sia addormentata fumando senza accorgersi del divampare dell’incendio.

L’uomo, anche se rattristato dalla misera fine delle due donne, si consola pensando ai tanti cloni sparsi per il mondo e soprattutto a quelli che erano stati ibernati che avrebbero garantito l’immortalità della madre anche in un lontanissimo futuro.

Nella conclusione l’anima della scienziata che dopo la sua uccisione per una sorta di punizione era trasmigrata nel suo clone quando questo muore viene liberata e si trova a vagare nella valle buia della morte dove le si affianca Beatrice.

Laura dopo aver concluso che anche i cloni hanno un’anima prende per mano il suo clone e affiancate procedono per andare non sanno dove ma con la consapevolezza felice che comunque resteranno insieme per sempre.

Il presente libro tratta diverse interessanti tematiche tra cui:

 l’assenza di etica in molti tipi di sperimentazione scientifica;

l’influenza negativa che possono avere sui bambini dei genitori brutali e noncuranti delle loro esigenze; l’omosessualità maschile; la genesi della violenza nell’uomo; la possibilità dell’esistenza dell’anima e la possibilità di una vita oltre la morte.

Inimicizia

Questo articolo è stato scritto e pubblicato da Maria Angelica Maoddi.

Imma si potrebbe definire una tipica rappresentante di quell’ipotetica sindrome dell’ape regina per i suoi comportamenti e per gli atteggiamenti psicologici reattivi. Imma non si faceva scrupolo di manifestare istintivamente un comportamento predatorio a caccia di situazioni scabrose nel sottrarre fidanzati e mariti a tutte le conoscenti e amiche semplicemente per il piacere della conquista. Riceveva piacere nel gioco senza avere alcun coinvolgimento affettivo. Le sue amicizie femminili erano scarse o di breve durata, sempre contrassegnate da conflitti aperti o mascherati. Le sofferenze inferte a quelle amiche le erano indifferenti, perché Imma negava a sé stessa di avere contribuito ai fallimenti dei loro rapporti e anzi lo attribuiva alla malevolenza delle malcapitate che soffrivano d’invidia per la sua impareggiabile avvenenza. Annullando qualsiasi scrupolo ridicolizzava la stupidità delle donne e il gioco riprendeva il suo corso nell’indifferenza essendo connaturato alla sua indole di primadonna. Aveva avuto un’amica per tutta l’adolescenza “che si era attaccata a lei come una piattola” e che lei aveva reputato insignificante. Era durata fino ai tempi dell’Accademia e poi non più. Giusy l’adorava e sopportava passivamente tutte le angherie che Imma le infliggeva. Imma aveva un rapporto sadico nei confronti di Giusy, la rimproverava di continuo perché mancava di autocontrollo ed era grassa e sciatta. La rabbia di Imma raggiungeva l’apice quando uscivano insieme e non rispettava mai le regole che lei le imponeva. La sottoponeva ad estenuanti ispezioni.

“Mi raccomando non ridere in modo sguaiato, non farmi fare brutte figure, vestiti bene”.

“Lavati, fatti la doccia prima di uscire”.

“Lavati i denti e poi non mangiare i fritti!”.

“Perché hai mangiato i fagioli ieri sera? Ora come posso portarti con me?”.

“Ti ho regalato un profumo delicato e tu metti quello di tua madre che puzza di Borotalco come quello delle vecchie!”

“Pettinati senza farti quelle torri cotonate di capelli che sembra un nido di pidocchi!”.

La povera Giusy si sentiva mortificata e chiedeva scusa. “No, vedrai, non lo faccio più…” oppure: “Non sono come te, tu sei bellissima, tanto a me non mi guarda nessuno… me ne starò in disparte a tenerti la borsa e il cappotto”.

Lei, comunque, si accompagnava con Giusy alle feste e ai raduni con amici. Imma si scusava della presenza di Giusy descrivendola ingenerosamente “una poveraccia che doveva necessariamente portarsi dietro per avere dai genitori il permesso di uscire”.

Purtroppo, Giusy in giovane età si era ammalata di depressione e aveva rischiato la vita per le diete a cui si sottoponeva e in seguito non usciva più di casa. Imma aveva cercato di smuoverla dalla sua apatia, provando a farla uscire, ma ben presto si stancò di starle dietro e non andò più a trovarla abbandonandola a sé stessa. A chi le chiedeva dell’amica rispondeva che era stupida da grassa ed ancor più da magra e che certo non poteva portarsi dietro uno scheletro. Imma non cercò più l’unica amica fedele che aveva avuto e da allora invece dette valore solo agli uomini, mentre le donne venivano da lei considerate incapaci e traditrici da tenere a distanza.

Le conferme ricevute dagli uomini che cadevano ai suoi piedi avvaloravano le sue convinzioni di attribuire l’accaduto all’invidia delle donne nei suoi confronti.

“Ma com’è stupida quella Romilde! Pensa che suo marito non la tradirebbe mai! È una rogna melensa, con quella fame di attenzioni. Cincischia con quella vocina da donnina perbene! Piripì, piripì… rincorre il suo maritino. Non sa che in amore vince chi fugge! Non bisogna mai far capire che si ha bisogno!”.

“Claudia mia, non devi piangere! Fai noia quando fai trasparire che sei depressa perché ti senti abbandonata!”.

“E tu Tiziana, con quelle fissazioni alimentari! Chi sopporta una che non puoi portare a cena perché ogni cibo fa male, e non beve mai un goccio d’alcol!”.

“Che stupidità quelle donne che fanno le gatte morte o come dice il mio amico Giovanni “fregne mosce”, puah!”.

“Sono convinta che agli uomini devi farli sentire all’apice del piacere! Anche quando fai finta!”.

Questi discorsi venivano sbandierati durante le sedute dall’estetista, mentre Imma si faceva massaggiare chiacchierando con signore che la istigavano a raccontare altre storie e pettegolezzi. Le ragazze più giovani con ammirazione subivano il fascino di ascoltare particolari piccanti della sua bella vita e chiedevano nuovi dettagli sulle sue varie conquiste. Imma si soffermava su particolari frutto di fantasia ed esagerava le sue avventure. Credeva di averle vissute realmente in tante situazioni e si sentiva lusingata da tanta ammirazione da parte di queste sue improbabili allieve. Più veniva ammirata da maschi e femmine e più si sentiva spinta a dimostrare il suo spirito guerriero definendosi un’amazzone. Presa dalla frenesia, Imma pensava continuamente a come stupire gli altri e la vita scorreva sopra le righe come in un palcoscenico con ritmi senza sosta. Le piaceva ballare e mettersi in mostra e negli attimi di breve pausa, sfogliava riviste di architettura d’interni soffermandosi sulle immagini e criticava ogni particolare parlando anche con sconosciuti su come l’avrebbe lei creato diversamente. Gli studi fatti in passato li aveva capitalizzati nel lavoro di scenografa e non sentiva affatto l’esigenza di approfondire o di confrontarsi con altri colleghi, che puntualmente sminuiva ritenendoli incapaci. Era sua convinzione si trattasse semplicemente di rapporti di rappresentanza e nel lavoro sapersi vendere e mostrarsi sicura era essenziale. Il suo percorso di vita dava ragione al suo atteggiamento rampante ed infatti fu introdotta nel business di mercato in espansione negli Stati Uniti. Quanto febbrilmente si proponeva ai conoscenti nel lavoro, in famiglia rifiutava ogni lamentela che riteneva fonte di fastidio.

Imma non sopportava di dover riflettere sui suoi improperi e si precipitava a raccontare l’accaduto, spiegando alle colleghe o ai conoscenti che le prestavano attenzione al momento, come la sua vita familiare fosse un peso insopportabile del quale si doveva sbarazzare, per fortuna con la lontananza non aveva l’onere di occuparsi della famiglia…

A cinquant’anni però la rutilante vita di Imma fu bruscamente interrotta da un ictus che la immobilizzò in una sedia a rotelle. Allora, sola e triste aveva bisogno dell’aiuto di tutti e spesso ripensando a Giusy, l’amica fedele che aveva tanto bistrattato, inveiva contro di lei, non perdonandole di esser morta.

Allora aveva affermato platealmente che ognuno è artefice del proprio destino. A lei invece il destino aveva giocato un brutto scherzo.