Vite recluse (Elena Dreoni)

Tra le sbarre dell’anima

cuori intrisi di dolore

smarriti dentro

esistenze sferzate dal male

aspettano un riscatto

e forza per camminare

verso quel tempo nuovo

dove il giudizio si plachi

e si aprano le porte del domani.

Un domani che doni lacrime di gioia

per lavare via sofferenze

e sia balsamo su cicatrici dolenti.

Un domani dove il sole illumini

passi leggeri e sicuri verso il senso pieno della vita.

il blog mille piroette – i diversi volti dell’ arte consiglia: Presentazione del libro “Diario di un’anima” di Marinella Pucci

In collaborazione con il Teatro Il Piccolo Chaplin di Marco Martino (Associazione teatrale). La presentazione avrà luogo presso il Teatro Il Piccolo Chaplin di Cosenza, il 28 dicembre 2023 alle ore 17:30, in Corso Telesio 123.

Profumo di mirto

Questo articolo è stato scritto e pubblicato da Nerina Piras.

Questo racconto è dedicato alla mia amata Sardegna, perchè il profumo di mirto è il primo odore che ti cattura appena sbarchi in questa isola stupenda.

Stavo guardando le foto di famiglia, erano tutte in bianco e nero, una mi colpì in particolare, ero io da bambina, credo di avere avuto 3 o 4 anni, avevo un bel vestitino con un fiocco in testa, forse dello stesso colore, con due belle gambe grassottelle e un bel sorriso piazzato sul visetto anche esso tondo; ero vicino ad un cane enorme, accanto a lui sembravo una “nana” o forse era lui che era un “alano”, non so, chiedo: «Mamma ma sono io questa?» «Si sei tu quando siamo andati in Sardegna a visitare i miei genitori.» «Allora sono andata anche io in Sardegna, pensavo che non ci avessi mai messo piede, anche se sono di origine sarda, non conosco nulla di quella terra.» «Allora sappi che questa estate per i tuoi 16 anni ti porto in vacanza a conoscere i tuoi parenti» «Questa sì che è una notizia bomba, non vedo l’ora di conoscere questa zia Maria con cui parli sempre al telefono.» «Ebbene conoscerai lei e i suoi figli, alcuni hanno la tua stessa età, vedrai ti divertirai.» Euforica ho subito pensato a quali vestiti portarmi, a quali scarpe, non che ne avessi a bizzeffe, ma almeno volevo fare una bella figura con questi cugini che abitavano così lontano da noi. Chissà che aspetto avevano, chissà se erano simpatici, che giochi facevano, se a scuola erano bravi, tante curiosità che presto avrei soddisfatto. Ed arriva il fatidico giorno, preparo la valigia, ai piedi ho le uniche scarpe, sono bianche e sono nuove, me le ha comprate mia madre per l’occasione, quante novità. Forse è più contenta lei di me di partire, avrà nostalgia dei suoi parenti, in fondo è tanto che è venuta ad abitare a Roma assieme a mio padre, ed è naturale che abbia desiderio di rivederli. Aspetto con impazienza l’autobus che ci condurrà alla stazione Termini, da lì il pullman per Civitavecchia, dove dobbiamo prendere la nave che ci porterà al porto di Olbia. Il pullman è quasi vuoto mi accomodo vicino al finestrino per non perdermi nulla di questo fantastico viaggio, arriviamo ad un paesino, Santa Marinella, dove troviamo il primo intoppo, la cittadina da attraversare ha un traffico enorme, è un piccolo paese; ma dove stava tutta questa gente! dico io, inizio ad innervosirmi ho paura di perdere la nave. «Non preoccuparti» mi rassicura mia madre, «Abbiamo tutto il tempo, stai tranquilla ormai siamo quasi arrivate a Civitavecchia.» In effetti da lì a poco arriviamo, andiamo subito a fare i biglietti dentro al Porto, facciamo passaggio ponte, non potevamo permetterci le cabine, e quindi era l’unico sistema per viaggiare senza spendere una fortuna, che noi non avevamo. Una volta a bordo, vado immediatamente in perlustrazione della nave, è enorme, sono piena di curiosità, la giro dappertutto; sul ponte; nel bar; vado persino a controllare dove sono le cabine e dove invece, si trovano le “poltrone” poi mi vado a cercare un posticino per la notte. Un incubo: la nave aveva ballato tutta la notte, noi ci eravamo accomodate alla sala bar, dove le luci erano rimaste accese per tutto il tempo della traversata, pertanto senza poter chiudere occhio. La mattina stravolte dal sonno e dalla stanchezza ci siamo alzate con la speranza, una volta sbarcate, di trovare subito il pullman che ci avrebbe portato nel paese di mia madre, ero in Sardegna, che emozione! La prima sensazione che ho avuto è stato l’odore che mi ha colpito le narici. «Che cos’è questo profumo?» chiedo. «E’ il profumo del mirto, è il profumo della Sardegna, è la macchia mediterranea» mi risponde mia madre. «E’ buono mi piace, credo che quando penserò a questa terra ricorderò questo profumo.» Troviamo subito l’autobus senza dover aspettare un’eternità, certo non è nuovo come quello che avevamo lasciato a Roma, ma non importa, basta che cammini. Dentro ci sono tante persone: le donne sono tutte vestite di nero, in testa hanno un fazzoletto anche quello nero, sembrano suore, ma le loro gonne sono larghe, “non sono suore” penso; gli uomini indossavano pantaloni che arrivavano appena sotto il ginocchio, in testa una “coppola”. Mi accomodo all’ultima fila, non voglio perdermi nulla, ho con me il mio libro, ma non credo leggerò, sono troppo eccitata da questo viaggio, non vedo l’ora di ammirare il paesaggio, il mare.

Prendiamo la strada statale 125, nessuno mi aveva avvertita di quello che avrei visto. Inizia il mio incubo, la strada statale percorre tutta la Sardegna da Olbia fino a Cagliari, attraversa montagne brulle, deserte, selvagge e meravigliose, ma piena di curve su una carreggiata dove a mala pena ci passano due veicoli. Le curve…poi, questo pazzo di autista le prende di corsa, ed io con il naso appiccicato al vetro, vedo con orrore che quando le prende, le ruote escono fuori dalla strada pericolosamente. Non riesco a trattenermi ed urlo al conducente «Ehi stai andando fuoristrada, stai attento.» A quel punto tutti i viaggiatori che erano dentro, si girano a guardarmi, mia madre mi dà una gomitata. Guardo tutti e penso “ma questi non hanno paura di morire!”. Comunque taccio, poi guardando ancora fuori vedo che il pullman questa volta sfiora la montagna, non ne posso più ho i nervi a fior di pelle, mi rialzo e ancora: «Insomma vuoi stare attento, così andiamo a sfracellarci.» Mia madre forse imbarazzata mi fa risedere, le altre signore vedo che sorridono sotto i baffi e mi accorgo che non sono tutte vecchie, solo che vestono tutte uguali e non capisco perché. Decido di mettermi a leggere, almeno non vedrò quando voleremo giù da questi precipizi infernali, morirò senza accorgermene. Ma le curve non finiscono mai, come questo viaggio, la lettura mi ha agitato lo stomaco che reclama, mi portano una busta di carta, “cosa ci devo fare” penso, ma poi capisco e la uso abbondantemente. Finalmente facciamo una sosta, il pullman si ferma in un paese si chiama Dorgali.

Rimango affascinata è tutto di pietra, è pieno di negozi, no non sono negozi ma banchetti con ogni ben di dio, non solo di cose da mangiare ma artigianato che non avevo mai visto, statuine di figure, vestiti come le persone che viaggiavano con me, dovevano essere i loro vestiti tradizionali. C’erano signore sedute, davanti alle loro porte di casa che ricamavano, altre impagliavano dei cesti, ma dove mi sono fermata più a lungo è stato davanti ad un artigiano che mostrava i suoi gioielli, erano tutti in filigrana, bellissimi. Era ora di ripartire cosi mia madre mi mette fretta per risalire sul pullman, io non volevo più salire sul quell’infermale mezzo, mi aveva detto che saremmo andate al mare, ma di mare qui nemmeno l’ombra, certo il panorama era comunque stupendo, le rocce sembravano statue, ma il disagio che provavo non mi faceva apprezzare appieno quello che i miei occhi vedevano. Così fatte le compere mangerecce, risaliamo, e ricomincia il mio calvario. Il viaggio riprende con la mia ansia che cresce, “ma quando arriviamo?” penso, prendo il libro ma poi ci ripenso, mi faccio un sonnellino almeno non vedo questo pazzo come guida. Forse riesco davvero ad assopirmi, poi mia madre mi dà una gomitata e mi dice: «Guarda.»

E io guardo, e non parlo, “il mare” penso “finalmente” i raggi del sole luccicano sulla superficie, sono ipnotizzata non riesco a distogliere gli occhi. Ora si che sono contenta di questo viaggio, ma la mia gioia dura poco, la strada rientra nell’entroterra e di nuovo non vedo altro che arbusti, rocce, ulivastri, pecore, capre. Altra natura altra bellezza, è un cambio continuo di colori, di emozioni, sto scoprendo la mia “terra di origine” è una grande esperienza, devo ringraziare mia madre. Poi torno nella realtà del viaggio, davanti a noi viene un pullman grande come il nostro che vorrebbe passare in questa strada già così stretta e infame. “Ora mi diverto”, penso “voglio vedere come faranno a passare, da una parte una montagna a picco dall’altra uno strapiombo pauroso”. Proprio divertita non mi sono, anzi sono rimasta in apnea tutto il tempo, a fare il tifo per il nostro autista, anche perché noi eravamo dalla parte dello strapiombo….brrr che paura ho avuto.

Abbiamo fatto poi un’altra tappa in un altro paese, non ricordo il nome, ma non mi è piaciuto, era più caratteristica Dorgali. Il viaggio era quasi compiuto a breve saremmo arrivati al paese, mi preparo per fare nuove esperienze. In effetti dopo tante curve, la strada diviene più dritta, in lontananza il mare aveva fatto di nuovo capolino in lontananza, il mio umore cambiava in meglio, il sole mi rendeva serena e pronta a vivere appieno questa giornata. Attraversiamo un ponte dove scorre il fiume Pramaera. Un cartello all’ingresso del paese dice Lotzorai, ma è talmente scolorito e scrostato che si legge a malapena

Sarà un paese dimenticato da Dio penso, ma ammiro le case sono tutte di pietra, che belle, le paragono ai nostri brutti palazzi di cemento, tutti dritti, alti e scrostati, qui sembra di essere tornati indietro nel tempo, mi piace, finalmente si scende, siamo arrivati. Alla fermata c’è una signora vestita come le mie compagne di viaggio, solo il vestito non è nero, porta anche lei un fazzoletto attorno al viso, ma sorride, mi sembra la più bella cosa che ho visto finora. Va direttamente da mia madre e si abbracciano commosse, io le guardo, ma sono una ragazza di 16 anni non voglio mostrare i miei sentimenti, anche se sono emozionata, cerco di darmi un contegno, rimango come uno stoccafisso a guardarle, poi questa “zia” mi chiama per nome e mi abbraccia, da una parte sono contenta di questa accoglienza, dall’altra penso di uscire dal suo abbraccio con qualche costola rotta. Poi tutta contenta cicaleccia con mia madre, io capisco poco di quello che dicono, non parlo il sardo, capisco solo qualche parola, in casa mia si parlava solo italiano o “romano” quando non mi sentiva mia madre. Ci porta in casa, anche questa è fatta di pietra, che bella penso, sul davanti ha un grande balcone, l’altra parte si affaccia su un prato, più su un piccolo orto, davanti alla cucina scorre il fiume che avevo ammirato entrando nel paese, è gonfio d’acqua, orgoglioso nella sua trasparenza e nello scorrere verso il mare, mi affascina. Mentre sono affacciata nella cucina ad ammirare lo scorrere del fiume ecco che giungono tutte le mie cugine, oddio ma quante sono? Vera, Teresa, Anna, Piera, Oriana, Isabella e poi i cugini tre; Biagio, Giulio, e Federico, li guardo cercando di memorizzare tutti quei nomi, Vera la più grande mi abbraccia e mi dice: «Non ti ricordi di me? Sono venuta a stare a casa tua per un tempo, tu eri piccola.»

Faccio uno sforzo, ma certo! ora mi ricordo di questa cugina, venuta ad abitare per un periodo di tempo da me, ricordo anche che mio fratello Fabio si era invaghito di lei, ero piccola e capivo e non capivo, ma ora che me lo aveva rammentato ricordavo che uscivano insieme, però evidentemente le cose non erano andate, se lei era tornata al paese senza di lui! Teresa si presenta, è una persona seria, forse troppo, non sento un gran trasporto, mentre Anna mi abbraccia e mi dice che abbiamo la stessa età, «Vedrai» dice «Che andremmo molto d’accordo.» Io sorrido, non so che dire, nemmeno la conosco. Piera non si avvicina nemmeno, rimane in disparte, non ci faccio caso, poi tutti gli altri uno per uno si presentano, si somigliano un po’ tutti, hanno un sorriso aperto uguale alla mamma, sicuramente mi troverò bene queste due settimane di vacanza. Andiamo a pranzo, preparare la tavola è un’impresa siamo 12 persone, perché mio zio il marito di Maria è morto tempo fa, vorrei aiutarle ma gentilmente mi mettono da parte e mi dicono che sono un ospite, “poi dopo il viaggio avventuroso che hai fatto sarai anche stanca”. Infatti ero stravolta e affamata, non vedevo l’ora di mettermi a tavola, Piera mi rivolge finalmente la parola, mentre sto mettendo in bocca il primo boccone seriamente mi dice: «Ma a te chi ti ha invitato?», la forchetta rimane a mezz’aria la guardo senza capire, ma il mio cuore ha un battito in meno, sono rimasta così male che mi si legge in viso il disappunto, divento rossa come un peperone e riaffiora la mia timidezza.

Non rispondo, mi guardo attorno per vedere se altri l’avevano sentita e se qualcuno si prendeva la briga di difendermi, invece quando mi volto, vedo mia zia Maria sorridere, venirmi vicino e abbracciarmi poi mi dice: «Non ti preoccupare, è uno scherzo, sta giocando.» A me non sembrava uno scherzo, l’ho odiata immediatamente, però faccio finta di nulla, in fondo sono solo un ospite in questa casa e non li conosco. Finisco di mangiare ormai con l’appetito rovinato e quando sto per alzarmi da tavola lei ancora: «Dai non prendertela, stavo scherzando, lo faccio sempre con le persone nuove che arrivano in questa casa.» Anche le altre cugine dicono la stessa cosa, sarà che a lei piace scherzare in questo modo ma io ci sono rimasta da cani, se questi sono gli inizi figuriamoci il resto delle vacanze. Comunque mando giù il boccone, e faccio finta di niente, poi iniziamo a parlarci veramente e scopro in lei una ironia che mi conquisterà per tutta la vita, inizio a fare il suo stesso gioco, ci riesco benissimo, ci intendiamo alla perfezione, diviene la mia migliore cugina. Intanto i cugini mi stavano preparando le giornate da trascorrere insieme, il giorno dopo, specialmente i maschi mi portano al fiume che mi aveva tanto affascinato. Per scendere fino all’acqua bisognava fare una specie di discesa, molto ripida e molto pericolosa, mi dissero che non dovevo dire nulla a mia madre, saremmo andati via alla chetichella Piera, Anna, Vera e Giulio, il fiume era proprio sotto la casa di mia zia, ci mettemmo in posizione e con il sedere scendemmo giù fino a lambire con i piedi l’acqua che scorreva tranquilla. Ci siamo tolti le scarpe e a piedi nudi li abbiamo messi nell’acqua, che era gelata, poi abbiamo iniziato a schizzarci a vicenda, non mi ero mai divertita tanto.

Torniamo a casa, sempre alla chetichella, dopo che ci eravamo asciugati, nessuno si era accorto di nulla, intanto stavamo già pensando al giorno dopo, specialmente Giulio e mi dice: «Vedi quella croce su quel monte difronte casa nostra?» La vedevo e vedevo anche che era molto in alto, «E allora?» «Preparati domani scaliamo quella montagna e arriviamo fino a quella croce.» Credo di avere avuto un momento di angoscia, non so se ero in grado, appena glielo comunicai iniziò a prendermi in giro: «Sei proprio una ragazza di città, lo immaginavo che non saresti venuta con noi!» Ci rimasi male e chiesi «Chi altro viene, oltre noi?» «Le solite io te Vera, Anna e Piera, loro sono abituate scalano quella montagna una volta a settimana.» Beh questa sfida era troppo, non potevo tirarmi indietro, a malincuore accettai. Così il giorno dopo sempre alla chetichella, uscimmo di casa senza far rumore, la montagna era proprio vicino a noi. Giulio era il capofila, Vera subito dopo, Anna dietro, io e Piera per ultime per chiudere la fila e non perdermi d’occhio.

Era dura la scalata, non ero abituata, poi non avevo le scarpe adatte, avevo solo quelle bianche nuove nuove, indossavo un abito leggero sbracciato, la montagna era piena di rovi, di piante di fichi d’india, di spuntoni di roccia e pietrisco, sudavo e mi graffiavo in continuazione, rallentavo tutto il gruppo con la mia andatura, ma loro non si lamentarono mai, mi aspettavano. Era pieno di fichi d’india rossi che invitavano a raccoglierli, e mentre stavo per coglierne uno Piera mi grida: «Ferma che fai, se lo prendi con le mani nude, ti riempi di spini che non vanno mai via, non toccarli mai, se ne vuoi mangiare un giorno ti porto e ti mostro come fare.»

Ubbidii immediatamente, spaventata a morte, già stanca della scarpinata, già tutta graffiata con il vestito divenuto uno straccetto, le scarpe poi non si potevano nemmeno guardare, tanto erano rovinate, ma pienamente soddisfatta, arrivai fino alla croce, abbiamo esultato tutti abbracciandoci; ora non mi avrebbero considerata una ragazzetta di “città” facevo parte del loro gruppo. La brutta sorpresa l’ho avuto una volta scesi dal monte, mia madre e mia zia erano ad aspettarci, appena mi videro si misero le mani nei capelli, ero un disastro, le scarpe poi! «Ma come ti è venuto in mente di salire fino lassù, non lo sai che è pericoloso, guarda come sei ridotta.» Non avevo il coraggio di dirle che ero perfettamente felice e soddisfatta.

Non ho risposto nulla, aveva ragione sul vestito, ma io intanto già sapevo che il giorno dopo mi avrebbero proposto qualche altra avventura ed ero ben contenta di andare con loro. Infatti, questa volta avvertendo le nostre mamme, saremmo andate alla vigna e all’orto dove avevano tanti alberi da frutto, specialmente di fichi, i miei preferiti. Mia zia mi disse: «Raccogli tutti i fichi che vuoi e mettili nella cassetta, o nel cestino, ma non mangiarli dall’albero, mi raccomando» «Certo zia non preoccuparti» Tutti i miei cugini con l’aggiunta anche di Federico, partimmo con i cestini per la campagna, che avventura, ora anche in campagna; arrivati mi sono trovata in una grande radura piena di alberi di fichi e di mandorli, ignorai i mandorli e mi diressi direttamente dai fichi, dimentica delle raccomandazioni di mia zia, iniziai a cogliere quella dolcezza, e a gustarli, con le mani appiccicose del latte che colavano, mi guardai attorno e vidi che anche loro raccoglievano un fico e un altro lo mettevano in bocca. Mi chiesi poi perché mia zia non voleva che li mangiassi direttamente dall’albero, un minuto dopo, lo capii…che mal di pancia spaventoso, non mi reggevo in piedi per il dolore, i miei cugini evidentemente abituati non subirono nessun conseguenza, ma mi consolarono e mi dissero che sarebbe passato preso, bastava andare in bagno. Mi ripromisi di dare retta a questa zia che sapeva tutto. Finalmente il giorno dopo decisero di portarmi al “sospirato mare”, in una sacca mettemmo il costume e un asciugamano, naturalmente di creme e cremette protettrici non se ne parlava nemmeno, poi loro erano tutti scuri di carnagione, solo io ero bianca latte, bionda e lentigginosa. La strada da percorrere era sotto il sole, fortuna che partimmo presto, non fu una gran fatica, in fondo il mare distanziava dal paese solo un kilometro, che noi percorremmo giocando, ridendo e ricorrendoci, che matti che erano i miei cugini, come mi stavo divertendo.

Arrivati al mare, mi innamorai definitivamente di questa terra, la vista mi si riempì di una bellezza folgorante, davanti alla spiaggia vi era un isolotto pieno di alberi, era uno spettacolo; rimasi ferma ad ammirarlo senza riuscire a fare ulteriori passi, loro mi presero in giro: non hai mai visto il mare? «Oh sì a Ostia, ma vi assicuro che non è la stessa cosa, come quello è verde, questo è trasparente, si vedono i pesci, e l’isolotto lì come si chiama, ha un nome? «Si chiama l’isolotto di Ogliastra, vedo che ti piace, magari un giorno andiamo a piedi fino a Santa Maria Navarrese, così ti renderai conto che gli isolotti sono tre, qui se ne vede solo uno.» «Si mi piacerebbe, andiamo domani per favore, voglio vedere gli altri isolotti, ma se uno volesse arrivare a questo di isolotto come si può fare?» «E’ lontano ci si arriva solo in barca, domani cercherò tra i miei amici se qualcuno ci può portare. Sei contenta?» «Magari sarebbe una grande fortuna. Intanto oggi godiamoci questa meraviglia, sdraiamoci sulla sabbia, poi facciamo il bagno.» Tornammo per pranzo, io rossa come un peperone, con il naso spellato, ma soddisfatta, agli altri il sole li aveva accarezzati, tornarono senza nessun disagio, chissà se la notte sarei riuscita a dormire, mi riempirono di “Aloe vera” ed ebbi un po’ di sollievo, ero già pronta a ripartire il giorno dopo per l’altra avventura arrivare fino a Santa Maria Navarrese.

Ed eccoci pronte il giorno dopo con lo zaino in spalla telo mare e costume, eravamo questa volta sole le donne, i cugini preferirono andare da un’altra parte. Non mi aspettavo una faticata così, già dovevamo attraversare il paese per arrivare al mare, un chilometro poi una volta in spiaggia, la camminata sulla sabbia, era mattina presto, fresco ma poi il sole inesorabile iniziò a picchiare di brutto, sentivo che la pelle iniziava a prendere un colore “rosso gambero”, ma questo non ci fermò, non ho idea di quanti chilometri percorremmo via mare per arrivare alla spiaggia di Santa Maria Navarrese, ma eravamo sconvolte tutte, io in particolare, ormai sembravo un vero “gambero arrostito”, mi bruciava tutto, persino la testa. Ma poi la vista di tanta bellezza mi mozzò il respiro, non sentivo più nemmeno la stanchezza, tuffarci in quelle acque limpide non aveva prezzo, mi divertii come non mai, ogni giorno era una scoperta nuova, questa terra mi stava dando tante soddisfazioni, iniziai ad amarla quasi quanto amavo la città che mi aveva dato i natali, cioè Roma.

Mi sentivo come se fossi approdata a casa dopo tanto tempo, sembrava che quella fosse la mia patria, amai i miei cugini tutti, amai la terra, mia zia, il paese, il mare la montagna che mi aveva accompagnato nel lungo viaggio, il profumo del mirto e della vegetazione di questa terra fantastica. Se Dio aveva voluto creare il paradiso in terra, lo aveva creato qui. Peccato che proprio quel giorno il sole mi aveva giocato un brutto scherzo, bruciavo, avevo freddo, tornai a casa di mia zia con un febbrone da cavallo. Tre giorni di febbre, pelle diventata un fuoco, chiusa in casa a disperarmi di perdere i miei giorni di vacanza, fortuna che i miei cugini non mi lasciarono mai da sola, anzi passavano le giornate chiusi in casa anche loro a tenermi compagnia, con le finestre chiuse, a parlare a parlare di tutto e di niente, anche quei tre giorni alla fine risultarono pieni di allegria, di conoscenza e di condivisione, e soprattutto di progetti per le prossime uscite. E finalmente si torna in campo, mio cugino Giulio ha incontrato il suo amico con la barca, andiamo all’isolotto, e vai che felicità.

E domani caschi il mondo esco da questa stanza mi copro e andiamo in barca all’isolotto. Ed ecco la nuova avventura, sembrava tanto vicino l’isolotto, alla fine ci vuole almeno mezz’ora per arrivare, il mare che al mattino è liscio come l’olio, nel pomeriggio si alza e il ritorno ci ha sballottato non poco, ma mettere i piedi sull’isolotto, andare su a visitarlo, scrivere il proprio nome su una foglia di fico d’india è stata un’esperienza da ripetere. Poi l’amico di Giulio mi fa l’occhietto, “e che ci stai a provà” ho pensato, “magari questo ora che ci ha portato a spasso in barca pensa di approfittarne, ma con me “caschi male”, mi faccio una risata e mi giro dall’altra parte. Il bello è avvenuto il giorno dopo, quando mio cugino Biagio, il maggiore, avendo saputo della nostra avventura, mi fece una ramanzina, e tutta in “sardo”, di tutte quelle parole ne avevo capite sì e no 10, l’unica cosa che sapevo che era arrabbiatissimo, perché poi? Forse la persona che ci aveva portati in barca non era affidabile, boh, non ho voluto indagare. La mia vacanza stava per finire, lasciare questa terra sarebbe stato difficile, mi ero innamorata dei suoi colori, dei suoi profumi, dei suoi abitanti, del mare, delle montagne….le montagne, mamma mia il pensiero corre subito al rientro a Roma e al pullman che ci avrebbe riportati ad Olbia. Sarei riuscita a superare il “trauma” della “famigerata strada statale 125”?

Aspettano I Sogni

Questo articolo è stato scritto e pubblicato da Elena Dreoni.

Non è un tempo buono per i sogni.
Traditi e delusi
son rinchiusi nel fondo di un cassetto.
Un velo di tristezza li tiene insieme.
Tacciono e aspettano.
Non sanno fuggire via.
E aspettano.
Aspettano un giorno di sole e d’allegria.
Aspettano un sorriso per fare capolino.
Aspettano che la chiave sfugga di mano
al guardiano che li imprigiona.
Aspettano domani
che non può più tardare.

Gli amici di Civitavecchia ci hanno accolto con grande entusiasmo. Il progetto artistico e sociale della nostra Comunity ha trovato il favore di quanti ieri sera sono intervenuti alla presentazione del libro di Mille piroette-I diversi volti dell’arte.
Io, Ivana e Nerina ringraziamo di vero cuore la nostra amica e artista Ombretta Del Monte per aver parlato del blog e di aver dialogato con noi e con il pubblico presente.
Grazie anche allo staff di Re-Cycle via Monte Grappa 2 di Civitavecchia.