Il Gorilla

Questo articolo è stato scritto e pubblicato da Elena Dreoni.

Ecco, la notte è sparita e quel sole che ormai io odio è di nuovo lassù e mi tormenterà fino a che, soddisfatto, andrà a cercare qualcun altro da colpire con le sue ossessioni. Un’altra giornata noiosa, stronza, uguale alle altre… inutile.
Ancora tutto è silenzio, ma tra un po’ verranno a pulire le gabbie e a portarci da mangiare, eppure, in tutto questo vegetare, mi riaffiorano alla memoria delle sensazioni vaghe, lontane. Sensazioni legate a odori, a rumori che mi riportano immagini sfocate del mio branco che viveva nel cuore della foresta e sento allora nascere una rabbia e un bisogno di scappare via e non vedere più tutte quelle facce che ogni giorno si fermano davanti a queste sbarre e mi guardano, mi guardano e mangiano noccioline, aspettando che io mi muova per poter ridere, darsi di gomito, e farmi le boccacce. Che ebeti!
Così lancio loro sputi grossi come noci, ma quelli ridono e il mio disprezzo diventa ancora una volta fonte di divertimento. Non posso lottare contro quello che loro vogliono da me eppure, proprio quando sto per essere sopraffatto, la voce ritorna ed è come se mi sentissi scuotere, se sentissi il sangue scorrere come un fiume in piena nelle mie vene. Quella voce amica e nemica, che è l’unica cosa ormai a farmi sperare di trovare una via d’uscita a questa esistenza ridicola, comincia piano piano a parlarmi: “Sono anni che sei lì, rinchiuso dietro a quelle sbarre, ma dove hai messo la tua aggressività, la tua fierezza? Guarda che più che un fiero Gorilla sembri uno di quei pupazzoni che nelle macchinette del tiro a segno vanno avanti e indietro finché qualcuno non gli spara. Avanti, alzati! Vai fuori e costringi tutti a capire che tu ci sei e che il tuo urlo li può fare ancora scappare!”.
La voce non sa che questa è una gabbia e io non sono forte abbastanza per abbattere le sbarre. “Non mentire a te stesso. Prima di tutto, cerca dove hai nascosto i brandelli di te, – mi ossessiona sempre – ricomponili decentemente dentro di te. Sollecita la memoria delle tue origini, il tuo orgoglio e non dirmi che li hai persi perché io so bene che li hai nascosti dietro la paura, e questo l’hai fatto così bene che ormai pensi proprio non t’appartengono più. Ma tu sei un animale da rispettare, uno di quelli che fanno PAURA e hai dei doveri ben precisi verso te stesso e la tua razza”. Ti prego non dire queste cose, chiedo pietosamente, ma quella insiste: “Te lo ripeterò fino a che non uscirai da quella misera gabbia che non si addice tuo rango e tornerai ad essere il GORILLA”.
Meno male, tace un po’, ma il senso di soffocamento che mi chiude la gola, quello sembra aumentare. Devo fare qualcosa. Devo, devo, devo, perché lo so che ha ragione anche se non voglio dargliela, e poi ho scoperto che l’orgoglio e la memoria delle mie origini, di cui mi parla, fanno profondamente parte di me e mi danno una forza alle braccia e alle gambe che avevo dimenticato di avere, mentre sento più forte la smania di non essere più simile a un pupazzone.
Oggi non voglio dormire e se vogliono spettacolo lo avranno, questa vita così non ha un senso e, quando tutti saranno lì davanti a me, con quel sorriso da ebeti, tornerò ad essere me stesso e strapperò via questa ridicola veste che mi hanno cucito addosso.
“Coraggio! Vedi che io sono la tua vera linfa vitale, ogni essere nasce libero ed ogni essere cerca di imprigionare i propri simili”. Forse non sei mio nemico an-che se quello che dici mi fa male. “Certo che non sono tuo nemico, ora tu sai di avere ancora forza, sai che la paura non è una corazza, quindi vai perché tu sei libero”.
Eccoli, mi fissano tutti e cominciano a ridere, so che le sbarre sono più deboli verso il centro alla mia sinistra. AAAAAHHHHHHHOOOOOOOHHHHHHHHH!
I quotidiani, il giorno dopo, riportavano i1 fatto nella pagina della cronaca: «Gorilla impazzito si scaglia contro le sbarre della sua gabbia riuscendo ad abbatterne tre. Panico tra i presenti che sono rimasti terrorizzati dall’urlo dell’animale e dalle sbarre stesse che si sono abbattute su quelli che occupavano le prime file. Quattro persone hanno riportato ferite gravi. La Direzione dello zoo ha aperto un’inchiesta per stabilire eventuali responsabilità».
Gli inservienti, pulendo la gabbia e il sangue rappreso, misto alle noccioline sparse per terra, commentavano. «Ammazzelo quanto ha urlato! Pareva che continuasse puro dopo che era stramazzato morto per terra in tutto quer sangue. Dicevamo che era un farlocco, se faceva fa’ tutto, sembrava che nun je fregasse gnente, je bastava de magna e dormi e invece, sarvognuno, me pareva de sta drento la foresta. Senti ste sbarre guanto peseno: n’ha sbracate tre co’ la capoccia. È proprio vero: dell’animali nun te poi mai fida’ perché c’hanno sempre, come se dice, l’istinto primitivo, però in fonno me dispiace perché era proprio simpatico, sputava, dormiva e magnava».

Il Vecchio E Il Bambino

Questo articolo è stato scritto e pubblicato da Elena Dreoni.

Il bimbo coglie i fiori nel parco.
Non sa se loro vogliono essere colti,
ma lui non ci pensa nemmeno
e li coglie perché cantano così bene
la gioia che c’è nel suo piccolo cuore.
Seduto sulla panchina c’è il nonno.
È un nonno come tanti,
di quelli seduti sulle panchine.
Un po’ retorico, come del resto
lo è quel ragazzino che corre sul prato.
Certo, se potesse essere meno retorico
il nonno non se ne starebbe lì seduto
ad aspettare e a leggere sul giornale
come la vita scorre sempre uguale.
Magari correrebbe nel parco
col vento che gli scompiglia i capelli
o forse, visto che di capelli
ne sono rimasti pochi,
gli basterebbe sdraiarsi su quell’erba.
Gli occhi aperti sul cielo
e pensieri di gioia nella mente.
Il bambino che non sa niente
questo certamente lo sa
e quel disordinato mazzolino di fiori
che gli poggia sulle ginocchia
custodisce il loro segreto
e fa cantare il cuore del vecchio
che non s’è mai avvizzito.

Sogno

Questo articolo è stato scritto e pubblicato da Elena Dreoni.

Le pareti della stanza
si aprono come fossero di carta.
Un letto sfatto di sabbia tiepida
profumata di mare.
Il rumore della risacca arriva lento
come l’onda che lambisce i piedi
prende con sé i pensieri
e li porta in fondo al mare.
Una brezza riempie la testa
di un odore un po’ aspro
e l’anima s’inebria
come di un vino leggero frizzante.
Un calore amico accarezza la pelle
scioglie le paure.
Le voci tacciono.
Il cuore si riposa.

Er Futuro De Tanti Anni Fa

Questo articolo è stato scritto e pubblicato da Elena Dreoni.

In una vecchia foto de famija
guardo er passato scolorito
dar tempo e da la storia.
Seduto sotto ‘n platano fronnoso,
vedo mi nonno che
ci ha su le ginocchia un nepotino.
Guarda er pupo e soride
a quer seme de futuro
che lui certamente nun vedrà.
È circondato da li fiji e da le fije
co’ le braccia e le speranze forti
per ricostrui’ quer monno
sprofonnato ne le macerie de la guera.
Quarcuno de loro tiene in collo un piccolino.
Anch’io sto tra braccia de mi madre
a mette le radici pe’ er domani che verà.
E mo’ scruto co’ nostargia quei visi
che fanno parte de la vita mia.
Ma, a l’improviso,
me pare che so’ loro
che me stanno a guarda’ a me
e pare che me chiedeno curiosi:
“Allora, com’è annata?
Che ne è stato de quello
che stamo a ricostrui’,
de li semi che stamo a semina’.
De li sforzi fatti, de tanta sofferenza
pe’ quer monno che ve stamo a consegna’?”.
Mo’ sorrido puro io,
ma pe’ nasconneje l’impaccio
e abbasso l’occhi
pensanno ar monno d’oggi.
A li muri che avemo fatto cade’,
a li ponti che nun avemo costruito
a le macerie de le speranze tradite,
de le promesse rimannate e scordate.
A li confini aperti e a li porti chiusi.

Ar creato sfruttato e danneggiato
che mo’ ce chiede er conto
dell’egoismo e de la superficialità.
Ma penso pure all’amore che mai s’arenne
all’odio, alla violenza
e alla discriminazione.
Ar bene comune naufragato
tra egoismi, interessi privati e corruzione.
Torno a guardà queli parenti mia
ma me la sbrigo co’ du’ banalità.
“Sì, beh, sapete, la storia s’aripete,
er tempo passa ma l’omo resta quello.
Vabbè, dai, ma poi… quanno
vengo Lassù ve spiego mejo”.
E me sbrigo a ripone la fotografia
pensanno a quanta guera è passata
e quanta mai ne passerà
senza riusci’ a costrui’ quela pace
de cui nun se fa artro che parlà,
mentre la guera la fa ancora da padrona
e se la ride sapenno bene
che la pace drento ar core
l’omo nun ce l’ha.

Maria, Ventre Di Madre

Questo articolo è stato scritto e pubblicato da Elena Dreoni.

Maria, ventre di Madre,
mai stanco di partorire
figli al tuo Dio.
Ventre gravido
nella gioia dell’attesa.
Lo sguardo proteso ai progetti di Dio
per quei figli e quelle figlie
che nascono ogni giorno
dal tuo Sì che sempre si rinnova.
Ventre di Madre che sogna
il domani dei suoi figli
mentre li dà alla luce
nelle doglie del parto.
Ventre d’amore,
madre di Cristo Signore
che anche per ciascuno di noi
canta nei giorni senza fine
il suo Magnificat a Dio.

L’Altra Metà Del Cuore

Questo articolo è stato scritto e pubblicato da Elena Dreoni.

Tutto era discussione. Il tragitto fino al lavoro, la mattina, era ormai diventato un viaggio da incubo in cui Marta non faceva che rinfacciare a Diego le sue colpe, mentre lui non resisteva un solo minuto senza accusarla di trascurarlo e di tradirlo. Quella mattina ci si erano messe anche le chiavi del negozio. Diego era sicuro che le avesse Marta. La sera prima, alla chiusura, gliele aveva date appena aveva tirato giù la serranda, se lo ricordava bene. Ma lei, altrettanto bene, ricordava di aver visto lui mettersele in tasca.
Non c’era verso di uscire dall’impasse. E si erano impantanati nella solita vischiosa discussione come in una palude di sabbie mobili. Fino a che lui aveva deciso di tornare su a casa a cercarle. Aveva sbattuto lo sportello dell’auto, intanto, che lei gli sbraitava contro l’ennesima inutile acida raccomandazione.
Diego aveva salito le scale di corsa con il cuore pieno di amarezza. La sua storia con Marta si avviava verso un triste epilogo. Lo sapevano entrambi. Era questione di tempo. Pochissimo.
Infilò la chiave nella toppa, la girò tre volte verso sinistra e, senza capire come e perché, gli tornò alla mente la prima volta che aveva aperto quella porta insieme a Marta. Avevano appena comprato la casa. Ridevano. Lei non la finiva più di sbaciucchiarlo sul viso. Ricacciò indietro quel ricordo che faceva solo male.
La porta di casa si aprì sotto la spinta delle sue mani. Se la richiuse alle spalle cercando con la mano destra l’interruttore per accendere la luce. Lo cercò allungando la mano, ma la parete sembrava essere sparita. Si voltò e il sangue gli si gelò nelle vene: quella non era casa sua. Era una foresta intricata, fitta di alberi, acquitrinosa, impenetrabile al suo sguardo. Alzò gli occhi e vide un gruppo di scimmie che volava sulle liane da un albero all’altro. Si girò di scatto verso la porta da cui era entrato ma… inutile dirlo, era sparita anche quella.
Le gambe gli tremavano, respirava a fatica, e non poteva essere diversamente, non c’era una ragione plausibile per vivere quello che stava vivendo. Che diavolo ci faceva lui lì, anzi che ci faceva tutta quella foresta nel suo appartamento di due camere e cucina? Cercò di restare lucido, pensò di chiamare il portiere o Carlo, il suo vicino, ma l’idea gli apparve subito ridicola. Era solo, senza cellulare, e in qualche modo doveva trovare il modo di uscire di lì.
S’incamminò verso il punto dove gli pareva che gli alberi si diradassero. Non si capiva se fosse giorno o notte. Tutto era avvolto in una nebbia rada e pesante. Il silenzio inquietante che vi regnava era rotto solo dal verso di un qualche animale che, per fortuna, se ne restava nascosto nelle profondità di quell’incubo. Diego camminava districandosi tra le liane e i ciuffi d’erba che emergevano dall’acqua. Si fermò per guardarsi attorno e fare il punto della situazione. Si passò una mano tra i capelli: qualcuno gli stava giocando un brutto scherzo. Ad un tratto gli venne da ridere pensando a Marta, giù al sicuro in macchina. Non ci crederà mai, pensò. La sua bella casa. Certo trovarsi in quel posto non le avrebbe fatto male. Magari avrebbe smesso di inveirgli contro per ogni futile cosa. Non riuscì a finire il pensiero che un urlo acutissimo gli penetrò le orecchie. Il suo sguardo cristallizzato dal terrore corse a destra, a sinistra, dietro di sé: niente. “Sono quassù, quassù”, gridò ancora la voce concitata. Diego alzò gli occhi: seduta su un ramo, tra gli alberi e le liane, vide lei… Marta. “Ma che cavolo ci fai lassù?”, le chiese con un filo di voce. “Questo dannato posto è pieno di coccodrilli. Ho fatto appena in tempo ad arrampicarmi quassù”, rispose lei piagnucolando.
“Coccodrilli!?”, ripeté lui con tutto l’orrore di cui era capace. Avrebbe voluto sparire, disintegrarsi e invece si ritrovò ad arrampicarsi con una fatica indicibile sul tronco vischioso per raggiungere Marta. Scesero dal ramo con l’aiuto delle liane. Lei aggrappata al collo di lui.
Ai piedi dell’albero, nessuno dei due osava chiedere all’altro come fosse possibile trovarsi lì, in quel posto da incubo. Un solo barlume di speranza attraversò la mente di Diego: che fossero finiti lì anche tutti gli altri coinquilini? Non lo disse. Non disse nulla. Anche lei tacque. Tutto era troppo inverosimile.
Si guardavano con un malcelato imbarazzo. “Sarà meglio andarcene prima che tornino i coccodrilli”, disse Marta. “Vieni, andiamo da quella parte”, rispose lui cercando di darsi coraggio e incamminandosi verso chissà dove. Lei gli prese la mano: era solo un modo per sentirsi più sicura.
Le scimmie volavano da una liana all’altra sopra le loro teste. Ad un tratto una si avvicinò a loro e con la consumata destrezza di un abilissimo ladro strappò la collana dal collo di Marta. La donna urlò con quanto fiato aveva in gola. “Brutta ladra”, gridò Diego rincorrendola, ma fece appena pochi passi che si sentì sprofondare. “Aiuto, che succede. Dio, le sabbie mobili”, gridò annaspando per afferrare un ramo. “Marta, Marta ti prego, fai qualcosa”, la supplicò. Ma Marta sembrava incapace di qualsiasi reazione. Piagnucolava come una bambina: “Quelle maledette chiavi. Chi se ne frega delle chiavi… per me quel negozio può anche sparire”. Le urla di Diego sembrava non la toccassero. Le gambe dell’uomo intanto erano sparite, divorate dalle sabbie mobili. Lui si vedeva perduto. Doveva riprendere il controllo della situazione. Si impose di parlare con calma: “Marta, Marta, torna in te, ti prego – le diceva -. Devi prendere un bastone per tirarmi fuori di qui. Vedrai usciremo di qui, te lo prometto. Marta, lì vicino a te. Prendi quel bastone”. La donna quasi meccanicamente afferrò il bastone. “Questo?”, chiese. “Quello, brava. Adesso allungalo verso di me”. Marta aveva smesso di piangere, ma continuava a lamentarsi: “Scusami Diego, io penso alle chiavi e tu rischi di morire”. Intanto Diego aveva afferrato un’estremità del bastone e lei tenendo l’altra ben salda con le due mani, lo stava attirando verso la terra stabile. “Ecco, quasi ci siamo. Tira ancora un po’”, le suggerì lui parlando sempre con molta calma e lei rispondeva benissimo alle sue indicazioni, continuava a tirarlo con non poca fatica, attaccato al bastone, verso di sé. Tutto stava filando liscio quando la scimmia, dispettosa, si fermò su un ramo dell’albero lì accanto a loro. Con il suo verso squillante e provocatorio sembrava volesse richiamare l’attenzione dei due poveretti. Marta, esasperata da tutto, strinse i denti in segno di rabbia e sbuffando le lanciò uno sguardo che avrebbe potuto ucciderla. Ma al vederla lasciò andare il bastone. La indico rivolgendosi a Diego: “Ecco dove sono finite le chiavi. Le ha prese lei. Brutta stronza”. La bertuccia urlando a bocca spalancata sembrava ricambiare l’epiteto, mentre sventolava in aria le fottutissime chiavi. Il panico, intanto, si era impossessato di Diego che era ricaduto all’indietro e non riusciva più a rimettersi dritto. Stava per essere preda delle sabbie mobili. “Marta, sto sparendo… il bastone, ti prego”.
Marta parve tornare in sé. Afferrò di nuovo il bastone e finalmente aiutò suo marito a uscire da quel pantano di morte. Quando furono al sicuro, entrambi sulla terra ferma, si abbracciarono. Da molto tempo non avevano desiderato così tanto di farlo.
“Eccola lì la stronza, con le nostre chiavi. Ma come cavolo fa ad avercele lei?”, tornò a piagnucolare Marta. “Non lo so, non abbiamo mai voluto neanche il cane. – rispose lui con la voce di chi non sa capacitarsi -. Non lo so, ma ce le riprenderemo. Vieni, non dobbiamo perderla di vista”.
Seguendo la scimmia ripresero a muoversi dentro quell’acquitrino interminabile. La bestiolina correva avanti, quasi sembrava che li volesse seminare, poi si accoccolava su un ramo per sbocconcellare un piccolo frutto e aspettava che i due poveretti si facessero più vicini per tirargli l’avanzo del cibo. Marta un paio di volte cadde. Lui adesso la portava tenendola per la vita, perché l’acqua s’era fatta un po’ più alta. Diego temeva in cuor suo che non ce l’avrebbero mai fatta a riprendersi le chiavi. Ma poi, ammesso che ci fossero riusciti, che ne sarebbe stato di loro? Come avrebbero fatto a uscire da quell’incubo?
Arrivarono a un punto in cui non si vedeva più nulla, solo acqua, nebbia, liane. Una riva in lontananza. La scimmia volando sulle liane raggiunse quella riva e loro due restarono infreddoliti e disperati a vederla andare via. “Te la senti di attraversare quest’acqua? C’è un grosso tronco là, potremmo provarci”, propose Diego alla moglie indicandole il tronco. “Va bene. Ti metterai alle mie spalle, così non avrò paura?”, chiese lei finalmente senza piagnucolare. “Sì, ti tengo io, stai tranquilla”. Così fecero. A cavallo del tronco, remando con le mani e guardando attentamente la superficie dell’acqua, con il segreto, ma neanche tanto, terrore di vedere apparire un coccodrillo, arrivarono sulla riva di quello che sembrava essere un isolotto. Erano stremati e affamati. Stanchi come non lo erano mai stati. Della scimmia non c’era più traccia. Si guardarono intorno. Il posto non era dei più confortevoli, ma la terra era solida, non più acquitrinosa. Raggiunsero una piccola radura sulla spiaggia. Diego crollò a sedere, la schiena appoggiata contro un albero. Anche Marta non vedeva l’ora di crollare a terra, ma uno sbrilluccichio in mezzo all’erba la indusse ad andare a vedere: erano le chiavi, le fottutissime chiavi. Le strinse al petto come un tesoro prezioso. Si avvicinò a Diego: “Guarda, finalmente”, gli disse sedendogli accanto. “Ma questo portachiavi non è il nostro!”, disse lui guardandole con attenzione. “Fai vedere – ribatté lei rigirandosele tra le mani. Questo è il portachiavi che mi avevi regalato tu, per ricordarmi sempre che sono la metà di te. Guarda il ciondolo, è metà cuore”. “Sì, hai ragione, un altro uguale ce l’ho io. Chissà dove. Vieni qui, riposiamoci un momento”, le disse aprendo le braccia. Lei si accoccolò stretta a lui. Chiusero gli occhi. Le chiavi strette nelle mani di Marta. Si addormentarono.
Il suono della sveglia, insistente, ripetuto, li fece sussultare. Aprirono gli occhi, stretti, abbracciati nel grosso letto matrimoniale che li avvolgeva rassicurante. Diego si guardò intorno, il cuore gli batteva forte: le pareti della camera da letto lo tranquillizzarono. Un sogno, grazie al cielo, era stato solo un sogno. Guardò Marta: era davvero bella. Le avrebbe raccontato il suo incubo notturno. Ne avrebbero riso insieme.
Anche lei, guardandosi intorno con gli occhi socchiusi dal timore, riconobbe le pareti rassicuranti della sua casa. L’incubo finalmente era finito. I suoi occhi incrociarono quelli di Diego, gli sorrise. Era tanto che non lo faceva. Gli avrebbe raccontato il suo strambo sogno della palude dopo un buon caffè. Spostò la coperta per alzarsi. Un rumore metallico attirò il suo sguardo a terra. Vide le chiavi. Le afferrò. Le guardò con grande stupore e istintivamente, senza dire una parola, le mostrò a Diego che fissò il ciondolo del portachiavi: metà cuore. Si guardarono con la stessa espressione incredula: perché le chiavi non erano rimaste nell’incubo? Poi si sorrisero perché erano nella loro casa: l’incubo era finito, dissolto alla luce del giorno, e le spiegazioni per ogni cosa le avrebbero potute trovare più tardi. Solo un pensiero attraversò la mente di Diego: ritrovare l’altra metà di quel ciondolo, di quel cuore dimenticato chissà in quale cassetto della loro casa. Intanto lui aveva preso le mani di Marta e l’attirava a sé. I loro volti si avvicinavano con lo stesso desiderio di ritrovarsi in bacio dal sapore dimenticato, in quella storia d’amore che ancora apparteneva a entrambi e mentre le bocche si univano trepidanti… nell’aria il grido acuto, inquietante della scimmia spezzò quel silenzio da sogno.

Come Un’Amica

Questo articolo è stato scritto e pubblicato da Elena Dreoni.

La pioggia battente svegliò Sara nel cuore della notte. Il suo rumore sempre più forte e insistente costrinse la ragazza a dischiudere gli occhi. Combattendo col sonno che continuava ad attirarla a sé, lei cercava di capire cosa stesse accadendo. Quando il buio della stanza fu squarciato da un lampo, allora si rese conto del diluvio che stava cadendo a precipizio dal cielo.
Scese svelta dal letto e corse in cucina. La finestra era aperta. Per fortuna la persiana era tirata in là, ma per via della violenza della pioggia entravano comunque schizzi di acqua e folate di vento.
Sara la chiuse in fretta e subito, intorno a lei, tornò la calma. Protetta dal vetro, rimase a guardare gli scrosci di pioggia che picchiavano violenti il marciapiede.
Il suo fiato caldo appannò il vetro, ma lei non tentò di pulirlo con la mano, perché in quella opacità si affacciò chiaro e dolente un ricordo.
Vide sé stessa e Valerio chiacchierare l’uno di fronte all’altra per la strada. Lui era appena rientrato a Roma da Milano, dove lavorava e dove era rimasto segregato nei mesi del lockdown per il covid 19. Sara aveva contato i giorni, le ore e i minuti per poterlo incontrare e abbracciare di nuovo dal vivo. Aveva voglia di guardarlo, e di accarezzargli il volto e i capelli. Aveva voglia di baciarlo, di assaporarlo come diceva lei, e di sentire il suo corpo stretto al suo. Ma più di ogni altra cosa voleva che il loro ritrovarsi dissipasse le ombre delle tante, troppe, discussioni e incomprensioni che avevano amareggiato quel lungo periodo di separazione.
Dietro a quel vetro, Sara sentì ancora dentro di sé l’attesa trepidante di un abbraccio, di un bacio rimasti però incompiuti, chiusi dentro di lei a bruciarle il cuore. Rivide lo sguardo distante di Valerio, la sua espressione ferma, decisa, mentre le diceva parole che ora non voleva ricordare. Rivide la pioggia che li bagnava, e la sua mano che cercava la mano di lui il quale, con fermezza, si sottraeva e continuava a scuotere la testa negandole qualsiasi possibilità. La pioggia cadeva più forte e si era unita alle lacrime di Sara e insieme le lavavano via il volto dal trucco, e le riempivano l’anima di un dolore lacerante e irreparabile.
La ragazza passò la mano sul vetro, lo pulì come a voler cancellare ogni ricordo. Si asciugò le lacrime con la mano e se ne tornò a letto.
Ora la pioggia si era calmata. Sara si rannicchiò sotto le coperte. L’acqua cadeva giù lenta e pareva accompagnare le sue lacrime, come un’amica tra le cui braccia annegare ogni sofferenza.

Cacciatori Di Pozzanghere

Questo articolo è stato scritto e pubblicato da Elena Dreoni.

«Evviva, non piove più», il grido festoso di Riccardo, il nostro figlio di sette anni, riempì la roulotte per dare la sveglia a tutta la famiglia. In un attimo, Lorenzo, il piccolo di quattro anni, balzò su di me che, sdraiata sul lettone che si ricavava dal soggiorno del nostro piccolo caravan, fingevo di dormire con la speranza di smorzare il parapiglia che si stava mettendo in moto.
«Mamma – mi chiamava Lorenzo dandomi degli schiaffetti sul viso come se fossi svenuta -, mamma, lo senti che non piove più?». A quel punto dovetti arrendermi e aprire gli occhi: il suo sguardo furbo e raggiante mi fissava: «Possiamo andare a caccia di pozzanghere?», mi chiese mentre la voce del fratello si sovrapponeva alla sua: «Mamma, papà, ma dove avete messo le calosce?». Domandava preoccupato Riccardo, il quale, come potei vedere sollevando la testa verso il fondo della roulotte, aveva alzato la rete del suo letto e, nel contenitore sottostante, cercava gli stivali di gomma mettendo tutto a soqquadro.
«Sono sotto il tuo letto – rispose con voce d’oltretomba il papà, Roberto, sdraiato accanto a me -. A destra, sotto la busta con i plaid».
Trovato il tesoro prezioso, le calosce per l’appunto, in un momento furono pronti. Costume da bagno, calosce e giacchina della tuta: questo era l’abbigliamento che si confaceva ai cacciatori di pozzanghere.
«Possiamo andare?», ci chiesero tenendosi per mano, mentre da fuori arrivava il vocio degli altri cacciatori, che li aspettavano per la prode impresa.
Il temporale estivo, al campeggio sotto la pineta, lasciava sempre dietro di sé, insieme all’odore inebriante misto di terra, di mare, di pini, di cespugli di rosmarino e di macchia mediterranea, pozzanghere disseminate qua e là nel terreno irregolare, e piccoli rivoli di acqua che scorrevano tra tende e roulotte.
Mentre i piccoli cacciatori, divisi in gruppetti, si sfidavano a trovare la pozzanghera più grossa, i campeggiatori uscivano allo scoperto come le lucertole, per incontrarsi e per verificare e riparare eventuali danni provocati dalla pioggia.
Anche Roberto e io ci ritrovammo in quel rituale di sempre. Fortunatamente, a ogni acquazzone, la nostra roulotte si rivelava come un rifugio sicuro. Camminando tra i vialetti, salutammo gli amici, ci offrimmo di aiutare qualcuno che doveva tirar via l’acqua dalla tenda. Infine, come accadeva di solito, ci fermammo nella veranda di un caravan di amici a bere una tazzina di caffè e a chiacchierare, in quel tempo che scorreva senza urgenze, né corse frettolose.
I piccoli cacciatori, intanto, reduci dall’indomita tenzone, correvano verso di noi, in una scia colorata e festosa, preceduti da Riccardo e Lorenzo, che agitavano le braccia in segno di vittoria.
«Abbiamo vinto noi», gridava Riccardo.
«Abbiamo trovato una pozzangherona azzurra», aggiunse Lorenzo non appena ci fu vicino.
«Venite a vedere, è bellissima», incalzò il fratello.
La pozzanghera, a margine della pineta, era davvero grande e rifletteva il cielo, che le dava un bel colore azzurro.
Nei giorni successivi, i prodi cacciatori tornarono a controllarla fin quando della bellissima pozzanghera azzurra non rimase che una buca piena di fango, da evitare per non caderci dentro.

Al Semaforo

Questo articolo è stato scritto e pubblicato da Elena Dreoni.

Una sfoglia di luna e una stella vicina
quest’aria che bevo di già settembrina
ti guardo nel cielo spicchio d’oriente
e penso a una bella e lontana dormiente.

Le case di fronte panciute, col tetto
si fanno smerlate e cangianti ad un tratto
e il serio cipresso li fermo in attesa
diventa una palma pungente e odorosa.

Scompare l’asfalto come una magia
e sopra il cammello, percorro una via
solcando le dune di sabbia argentata
ti cerco soavissima donna velata.

Compagno di viaggio è un fitto mistero
che avvolge i tuoi occhi di ebano nero,
mi fermo al Castello con grane emozione
perché tra un momento ti avrò mia visione.

Ma quando una porta ormai ci separa
rimbomba alle orecchie orrenda fanfara,
la spada è sguainata, mi volto di scatto,
ma tutto è scomparso, mirabile effetto.

Io cerco il Castello, la sabbia, i predoni
ma sento soltanto del clacson i suoni
ed ecco lo sguardo tra le auto si perde
mentre il semaforo è di nuovo verde.

Libertà

Questo articolo è stato scritto e pubblicato da Elena Dreoni.

In una sottile bolla di cristallo
ho racchiuso i miei desideri
poi l’ho lasciata andare
affinché li portasse lontano.
Il vento l’ha trovata
impigliata tra i rami secchi
e incuriosito l’ha presa con sé.
Stordito dalla sua leggerezza
s’è messo a cullarla
e a giocare con lei.
E lei sorridendo s’è lasciata portare
fin sotto la pioggia d’arcobaleno
dove ha ritrovato tutti
i suoi mille cangianti colori.
Ma nascosta sotto un fascio di luce
una tela di ragno d’oro
l’ha imprigionata.