Questo articolo è stato scritto e pubblicato da Maria Teresa Fiumanò.
Roma 5 /11/1997
Francesco Conte : 78 anni, cammina inclinato in avanti con andatura a piccoli passi, presenta ipertonia muscolare, impaccio e lentezza nei movimenti (bradicinesia), tremore della testa e di entrambe le mani a riposo, facies amimica, monotonia della voce, abbondante scialorrea. Scrittura tremula, micrografia. Riferisce accentuata sensazione di rigidità degli arti, facile astenia, depressione e lamenta soprattutto un eccesso di salivazione che lo imbarazza. Assenza di disturbi psichici, buona capacità di attenzione e assenza di rallentamento ideativo.
Il signor Francesco mi è stato inviato da un collega perché i suoi sintomi, alcuni dei quali comparsi già da qualche anno, sono stati sottovalutati dal suo medico curante e adesso arriva a me, in una fase della malattia abbastanza avanzata, senza essersi mai sottoposto a cure specifiche .
Purtroppo anche nella categoria di noi medici, mi dispiace dirlo, ma è una inconfutabile realtà, esistono persone ignoranti e di poco scrupolo che curano per modo di dire prescrivendo solo medicine di routine, spesso senza visitare con accuratezza le persone che si rivolgono a loro.
Il mio nuovo paziente entra nello studio manifestando una grande timidezza.
E’ curato, capelli bianchi radi pettinati con la scriminatura di lato, naso aquilino importante e occhi celesti la cui vivacità contrasta con l’inespressività di un bel viso dai lineamenti regolari non alterati dalle rughe profonde che gli solcano la fronte e le guance meticolosamente rasate, inappuntabile nell’abbigliamento: vestito grigio, camicia azzurra stiratissima e cravatta color amaranto, un fazzoletto bianco ripiegato gli spunta dal taschino della giacca e un altro è appuntato al collo della camicia per raccogliere la saliva che gli scende copiosa da un angolo della bocca.
“Ci ho messo tutta la mattina a vestirmi, naturalmente mi sono fatto aiutare , sapevo che il neurologo da cui sarei andato era una neurologa e volevo fare una bella figura. E’ la prima volta che dovrò mostrarmi spogliarmi davanti a una persona di sesso femminile che non sia mia moglie e prima ancora mia madre e mi sento in imbarazzo.
Io, anche se sono vecchio, stimo molto le donne medico, penso, anzi sono sicuro, che hanno faticato tanto, molto più degli uomini a diventare quello che sono e hanno tutta la mia stima.
Io non sono un grande uomo, sono stato solo un maestro delle scuole elementari, ma ho visto, ho sofferto, ho vissuto e le mie opinioni me le sono fatte e ce l’ho. Grazie per aver accettato di prendermi in cura, mi metto nelle sue mani.’’
Dopo la visita e aver fatta diagnosi di morbo o malattia di Parkinson, una volta definita paralisi agitante, prescrivo al signor Francesco le medicine che dovrebbero indurre il suo organismo a un discreto miglioramento e una serie di esercizi di vita quotidiana che potrebbero aiutarlo a superare la mancanza di iniziativa, l’inerzia motoria e la depressione che costituiscono un corollario inevitabile del suo male.
Il paziente che da quando è diventato vedovo a casa si fa aiutare dalle nipoti, figlie di sua sorella, e da una cameriera, d’ora in avanti, seguendo i miei consigli, dovrà vestirsi da solo, uscire e camminare il più possibile, andare a fare la spesa, cucinare, rassettare la sua casa e per migliorare le capacità motorie delle mani dovrà scrivermi un diario delle sue giornate e , se vorrà e gli riuscirà, del suo passato….
DIARIO di Francesco
2-12-97
Le ginestre
Ho rivisto stamani le ginestre
che mi sfilavano rapide davanti
e ho ripensato al viale dei Pini
e alle tante ginestre gialle, dorate, profumate.
E noi camminavamo , mano nella mano,
caldi di sole e d’amore.
Sognavamo, oh, quanto sognavamo felici
per le nostre piccole cose e il nostro amore tenero, infinito.
Ora le ginestre fioriscono ancora,
ma non per noi. Sono rimasto solo a vederle.
Tu te ne sei andata, con una rosellina
di maggio tra le dita, portandoti via
per sempre il mio cuore e il mio amore.
Ho voluto cominciare questo diario con una breve poesia che scrissi pochi giorni dopo la morte di mia moglie Maggie. La scrissi con il cuore e gli occhi colmi di lacrime a perenne ricordo del nostro amore che è stato bello, tenero , appassionato e durato per tanti lunghi anni dal lontano 1944 fino al funesto aprile 1993, quando lei ha lasciato per sempre la vita terrena, abbandonandomi al mio destino.
Come avrei voluto che mi portasse con sé! Che ci sto a fare, mi chiedo sempre, io qui da solo e in aggiunta malato ?
Spero di poter scrivere cose più serene nei prossimi giorni.
4-12-1997
Gran brutta giornata quella di ieri, pioggia, grandine, vento e un’aria greve, pesante E’ un po’ come se il tempo si fosse accordato con i brutti pensieri che mi vengono sempre in mente quando ricordo la fine di Maggie.
Sono stato tutto il giorno solo in casa, non me la sono nemmeno sentita di andare dalle nipoti che abitano a pochi metri da me. Non avevo voglia di spiegare il motivo della mia melanconia.
A aumentare la tristezza si è aggiunta la notizia della morte di Augusto, mio caro amico e vicino di casa, insieme al quale mi sono impegnato al massimo negli anni passati per far promuovere la costruzione la nostra chiesa parrocchiale. Era un accanito fumatore e, anche se una brutta bronchite l’ha tormentato per anni rendendogli la vita molto dolorosa, non ha voluto mai smettere il vizio che gli ha compromesso gravemente la salute.
Rimane sua moglie Liala, che malgrado gli acciacchi e l’età avanzata, è riuscita curarlo fino alla fine con grande coraggio e dedizione.
Speriamo che il Signore le dia la forza di sopportare la solitudine dei vedovi che io conosco bene e che non è facile da sopportare.
Stamani c’è il sole, mi auguro che sia una giornata più serena di quella di ieri.
5-12-1997
Anche oggi è una brutta giornata, il cielo è pieno di nuvole grigie, tira un gran vento e fa molto freddo. Io che temo il maltempo e i raffreddori che non mi passano mai ho preferito non uscire per niente.
Le mie nipoti sono partite per tre giorni perciò sono solo soletto e me ne sto a vedere la televisione e a fare il cuoco, trafficando maldestramente tram i fornelli.
Pensare che mia moglie, anche se non era appassionata di cucina, non mi ha mai permesso di mettere mano alle pentole! Secondo lei e devo dire anche secondo me queste sono faccende prettamente di competenza femminile.
Però di necessità si fa virtù.
Oggi come oggi io mi devo necessariamente arrangiare, all’una un pranzetto sbrigativo: spaghetti al burro, una cotoletta panata (bella e pronta, solo da scaldare), due patatine arrosto. Per stasera mi sono già organizzato: tre fettine di prosciutto cotto, un pomodoro condito e la cena è fatta !
Scrivo con la mano ribelle che non tiene conto delle righe e vuole essere indipendente.
Riprenderò i miei compiti quando si mostrerà meglio disposta a seguire i miei ordini.
6-12-1997
Sono passati circa venti giorni da quando ho incominciato la cura per la mia malattia e i benefici sono stati rapidi e numerosi . Uno dei maggiori è che ho smesso di sbavare in continuazione , era un inconveniente che mi dava molto fastidio!
Quel dover portare il fazzoletto alla bocca centomila volte mi costringeva a starmene in disparte e a isolarmi, più di quanto non abbia fatto dopo la morte di mia moglie. Mi pareva che tutti mi guardassero e mi compatissero, che sgradevole sensazione !
Ora, invece, posso stare in mezzo alla gente serenamente senza vergogna. I tremiti sono diminuiti e adesso posso anche farmi di nuovo la barba . Prima questo semplice atto di pulizia quotidiana era una lotta tremenda : la mano andava dove voleva, senza la giusta inclinazione , passavo e ripassavo sulla faccia con il rasoio elettrico, ma i peli rimanevano intatti e belli dritti come tanti soldatini.
Non parliamo delle difficoltà che provavo a vestirmi e che ora sembrano passate. Che lotte con i bottoni! Era una vera battaglia fra le mie dita disobbedienti, le asole e i bottoni, quando credevo di averne imprigionato uno questo mi sgusciava via più libero che mai e dovevo ricominciare da capo. Che dire poi delle difficoltà che provavo quando dovevo infilare una maglia o indossare una giacca o un cappotto! Sembrava che le maniche non ci fossero più, sparivano e io annaspavo cercandole. Un altro fastidioso impaccio mi intralciava quando bevevo da un bicchiere, dovevo lasciare il bicchiere mezzo pieno, oppure bere con una cannuccia . Ora questi inconvenienti sono scomparsi e sono felice di aver ripreso una buona parte della mia indipendenza.
Certamente so di non essere guarito, però mi sento molto meglio e di questo ringrazio la Professoressa che ha fatto la diagnosi della mia malattia e ha indovinato la giusta medicina per curarla.
Mi è piaciuta la mia neurologa, non mostra falsi pietismi, dice ciò che va detto e sa spiegare i meccanismi della malattia e gli stratagemmi da impiegare per vincerla. Ha detto che dobbiamo essere come due alleati che lottano contro un nemico comune.
Prima di andare da lei pensavo che la mia strada fosse tutta in discesa e che avrei dovuto percorrerla senza nessun aiuto.
Ero davvero sfiduciato!
Invece ho trovato chi è capace a curarmi e è disposto a starmi vicino e con questo pensiero confortante ho ripreso a vivere convinto di potermi riappropriare della mia dignità.
Non voglio sbilanciarmi, ma da un po’ di giorni mi sento un pochettino più ottimista.
8-12-1997
Oggi ho chiamato per telefono Maria una cugina di mia moglie che compie novantasei anni portati benissimo.
E’ una donna piccolina di statura, vivace, piena di forza, instancabile e intelligente. Mi vuole bene perché sono stato il marito della nostra povera Maggie.
Non si è mai sposata e vive lontano da qui in un paesino della Campania, però mi telefona quasi tutti i giorni per informarsi della mia salute.
Quando la vado a trovare, di solito due volte all’anno, si dà tanto da fare per me, prende la corriera, scende in città per fare la spesa e si carica di borsoni che si fa riempire di frutta, verdura, carne, formaggi e dolci che poi si trascina a stento fino a casa.
Tutte queste fatiche per cucinare i miei piatti preferiti, quando sto da lei mi rimpinza e mi rimprovera perché non riesco a mangiare ogni pietanza che mi ammannisce. E non mi fa mancare il vino di uva fragola che lei stessa produce in uno dei suoi vigneti.
Maria, quando era giovane, ha preferito il lavoro al matrimonio, ha fatto la maestra elementare come me insegnando in diversi paesini del Piemonte e, poiché era piuttosto graziosa, una biondina tutto pepe con sfacciati occhi celesti, ha avuto diversi amanti, qualcuno sposato, e, in considerazione dei tempi, ha dato scandalo e al suo paese era chiacchierata.
I parenti l’avevano allontanata, però io e Maggie, che non ci siamo mai fatti influenzare da pregiudizi di nessun genere, l’abbiamo sempre frequentata volentieri e spesso è stata ospite a casa nostra.
Aveva e ancora adesso ha un carattere fantastico, una donna sempre di buon umore, con la risata pronta, sapeva civettare e più di un nostro amico, a suo tempo, ci ha perso la testa.
Lei che voleva solo divertirsi e non prendeva nessuno sul serio, diceva di odiare qualsiasi genere di legame a vita e si è dimostrata coerente con le sue idee.
Quando è andata in pensione è tornata a vivere nel suo paese d’origine disinteressandosi delle malignità che la circondavano.
Si è dedicata con successo alla coltivazione di un certo numero di terreni ereditati da uno suo spasimante agricoltore e si è conquistata il rispetto e l’ammirazione dei compaesani, che all’inizio le si erano dimostrati ostili e, come dice lei, “ la mia popolarità e la mia onestà sono andate aumentando con l’aumentare dei miei soldi’’.
E’ stata veramente in gamba e ancora adesso se la sa cavare egregiamente, sicuramente meglio di me!
Il suo modo di ragionare e agire è sempre stato straordinario, ma non tutte le persone sono state in grado di capirla, veniva considerata una poco di buono e invece lei ha sempre sostenuto che con il suo comportamento un po’ leggero non ha fatto che del bene agli altri e anche a sé stessa!
Ancora adesso sostiene “Io non ho nessun rimpianto, mi sono tolta ogni voglia, ho dato tanto, anche me stessa, e in cambio ho ricevuto non soltanto pettegolezzi e maldicenze, ma anche moltissimo amore, e questo è il segreto della mia serenità.’’
9-12-1997
Oggi, dal momento che cammino più spedito, sono riuscito a tornare al Cimitero per una visita ai miei cari defunti.
Quanto cordoglio nel rivedere le tombe dei membri della mia famiglia! Ho guardato con nostalgia le piccole foto stinte sulle lapidi : mio padre Antonio e mia madre Giuseppa, lavoratori instancabili e guida affettuosa e saggia per noi figli, i miei due fratellini morti piccoli e le mie due sorelle anch’esse scomparse.
Alla fine la tomba di mia moglie che sono riuscito a ripulire ben bene dalle erbacce che l’avevano invasa nel periodo in cui ero quasi completamente bloccato.
Quanto è stata bella la mia vita quando potevo godere della compagnia e dell’affetto dei miei cari! Di tutti loro mi è rimasto solamente un fratello, Giovanni, afflitto anche lui di gravi problemi di salute. Anche se vive in paese poco distante dal mio ci vediamo raramente, ma ci vogliamo bene lo stesso.
Tornando a casa ho fatto una sosta per riposarmi su di una panchina per carpire un po’ di calore dal sole esangue che faceva capolino dalle nuvole. Quasi subito si sono seduti accanto a me due miei amici che non vedevo da tempo e che, saputo che tornavo dal Cimitero, hanno cercato di farmi ridere raccontandomi qualche freddura. Insieme hanno tirato fuori le solite trite e ritrite barzellette su vecchi sporcaccioni che non si rassegnano alla vecchiaia e ch non mi hanno per niente rallegrato.
Un vecchio bacucco che va dal dottore “Dottore, dottore, un mio coetaneo non fa altro che dirmi che lui scopa tre volte a settimana, che devo fare ?’’ e il dottore di rimando “ Digli che lo fai anche tu!’’
Un’altra ancora peggiore su due uomini toscani avanti con gli anni: Uno di loro cammina trascinandosi la gamba e con la faccia storta . L’amico gli chiede “Oh Giulio ma che hai mai fatto ? “ Un trombo, Mariuccio, un trombo’’ “Ovvia , ma che mi vai dicendo mai ? Anch’io ‘un trombo mai eppure mica mi so’ ridotto a codesta maniera!’’
E alla fine un’altra freddura sul pane che più è vecchio e più diventa duro al contrario di quello che succede agli uomini.
Forse non è proprio come la sto scrivendo io, ma il senso era quello.
Sempre con questa fissa del sesso gli uomini!
Però a un a certa età dovrebbero smetterla, se non altro per una questione di dignità. Ma a quanto pare di fronte al sesso la dignità passa in seconda linea.
Non che io sia un santo, anche a me piaceva fare l’amore, ma ci ho rinunciato già da numerosi anni e precisamente da quando Maggie si è ammalata.
Sapevo che avrei potuto cercare altrove le mie soddisfazioni sessuali, eventualmente a pagamento, è talmente facile! Ma a me solo l’idea di fare un torto a una moglie, che adoravo e che versava in quelle condizioni, mi faceva orrore.
Non ero un bigotto e nemmeno un idiota, ero semplicemente un uomo innamorato. Io non ho mai smesso di voler bene a mia moglie, nemmeno sul letto di morte.
Lo so che raramente l’amore resiste intatto alla prova dell’abitudine e degli anni, ma per me è stato così e io sono felice di aver potuto godere di una simile fortuna!
Qualche volta in sogno ho ancora delle fantasie erotiche, eppure, è strano, anche mentre dormo l’unica donna che mi appare per farmi provare piacere è sempre e soltanto l’adorata compagna della mia vita.
Maggie era una donna sensuale e non si è mai rifiutata, con scuse di mal di testa o di altri malanni, anzi spesso era lei a prendere l’iniziativa …
10-12-1997
Sono tornato a casa nel primo pomeriggio, dopo essere stato a pranzo da una delle miei nipoti, che è sempre tanto carina con me, vorrebbe addirittura che mi trasferissi da lei, pure se è sposata e con tre bambini, ma io ci tengo alla mia indipendenza, alla mia casa e alle mie cose e non accetterò mai.
Voglio restare qui e quando non ce la farò più a cavarmela con le mie forze mi pagherò una persona che mi accudisca.
Oggi che fa un freddo cane, ho le mani gelate e scrivere mi risulta molto faticoso, però so che devo sforzarmi, non desidero essere rimproverato dalla dottoressa per non aver eseguito il mio compitino di scolaro modello.
Ero convinto che perseverando nello scrivere la mia grafia diventasse più chiara e leggibile, ma purtroppo questo miglioramento ancora non si vede. Speriamo nel futuro, io ci provo!
11-12-1997
Stamani per alcuni acquisti, dopo moltissimo tempo, approfittando di un passaggio in automobile datomi da mia nipote Gilda, mi sono recato nel centro della città di C…. Sono rimasto impressionato dall’enorme traffico e dalla grande confusione che vi regnano.
Sono bastati pochi anni per cambiare totalmente la fisionomia di un posto che in passato frequentavo piuttosto spesso e volentieri e che ora quasi ho stentato a riconoscere.
Auto e moto in frenetico movimento o in sosta lungo i marciapiedi affollati di gente o in doppia fila.
Mi sono trovato in difficoltà a districarmi in quella baraonda e non vedevo l’ora di far ritorno nel mio tranquillo paesello.
12-12-1997
Ai miei ordinari acciacchi oggi si è aggiunto un fastidioso mal di schiena. Non mi piace affatto essere quello che sono diventato col passare degli anni : un vecchietto pieno di malanni.
Che posso farci?
Nessuno può levarmeli gli anni, e quel che è peggio nessuno può compatirmi.
Una volta quando non ero ancora vedovo e stavo male, sempre roba di poco conto, la mia cara compagna mi riempiva di premure e io, ritenendola esagerata, la trattavo con un certo distacco mostrando di essere seccato per le sue eccessive attenzioni.
Che sciocco! Ero un individuo fortunato e non me ne accorgevo.
Via! Non voglio lamentarmi troppo, purtroppo la vita va in questo modo e noi umani non ci possiamo fare niente.
Mi spiace di non poter andare a Messa questa sera. Spero che una giornata di riposo assoluto con il calduccio dentro casa mi aiuti a star meglio.
14-12-1997
Invece di un giorno a casa ne ho trascorsi due e ancora non me la passo un granché bene.
Oggi aspettavo delle visite, una da parte del mio caro fratello e l’altra da parte di un amico che ogni tanto passa da me per una partitina a scopa.
Purtroppo non mi è venuto a trovare nessuno, penso soprattutto a causa del tempaccio che imperversa.
Domani telefonerò alla Professoressa per metterla al corrente delle mie condizioni. I miglioramenti ci sono stati e è innegabile, molti e rapidi nei primi giorni di cura (la salivazione e la rigidezza che sono scomparsi), poi c’è stato qualche altro progresso anche se più lento (il tremito diventato molto raro e il passo che è diventato più sciolto).
Però la grafia, nonostante gli esercizi è rimasta quasi la stessa, lenta, impacciata, irregolare e non riesco ancora a concentrare la mia attenzione come facevo prima, sia nella lettura che nel guardare la televisione e la memoria è un disastro !
Ricordo bene solo le cose passate, mentre mi scappa di mente dove ho riposto qualche oggetto solo pochi minuti prima .
15-12-1997
Ho parlato al telefono con la Professoressa , lei vuole che la chiami Dottoressa, ma a me sembra così importante, brava e preparata che mi viene spontaneo chiamarla con questo titolo.
Le ho esposto le mie condizioni di salute e Lei, ascoltando le mie lamentele, mi ha un po’ rimproverato per la mia impazienza. Lei ha ragione : io ho troppa fretta di ridiventare l’individuo che ero prima, più agile, più forte, più sicuro di me, più “giovane’’.
Mi piacerebbe che durante la sua prossima visita la Professoressa vedesse in me non solo il malato, ma almeno un po’ dell’uomo che sono stato e che ancora sento di essere. Le mostrerò una mia fotografia in divisa di quando ero ufficiale durante la seconda guerra mondiale, ero davvero un bel ragazzo castano con tanti capelli, le sopracciglia folte e due grandi occhi azzurri.
Beati tempi passati ! Oggi ho 78 anni che sono tanti e difficili da portare, certo se non fossi diventato un parkinsoniano sentirei meno il loro peso che sono, purtroppo, costretto a sopportare.
17, 18,19,20,21, 22, 23, 24-12-1997
Queste giornate prenatalizie le ho accumunate perché il tempo è stato discreto e io ho trascorso quasi tutte le ore mattutine in veranda godendomi il tepore di un pallido solicello invernale che filtra attraverso i vetri rallegrandomi lo spirito.
Nei pomeriggi andavo dalle nipoti a casa delle quali c’era un gran fermento, soprattutto da parte dei loro figli più giovani, per la preparazione degli addobbi natalizi.
Io ormai non faccio niente, però in mezzo a questi allegri rituali mi piace ricordare di quando insegnavo e con l’aiuto dei miei alunni in classe allestivo sempre un bel presepio.
Adoperavamo gli scatoloni di imballo dei frigoriferi e gli alunni creavano, sotto la mia guida, con tecniche diverse i fondali, gli scenari su diversi piani e prospettive, e i differenti personaggi.
Una volta finito il nostro capolavoro lo illuminavamo con il proiettore e facevamo suonare le musiche natalizie tradizionali mettendo in moto le bobine del registratore. Venivano anche i genitori dei ragazzi a ammirare la nostra opera e i bambini cantavano le nenie natalizie, anche alcune in inglese insegnate loro da mia moglie che ha sempre collaborato con me in tutti i lavori e spettacoli scolastici che richiedevano un certo impegno.
Lei era una donna così piena di fantasia, inventiva e entusiasmo! E adorava i bimbi.
Noi, purtroppo, non siamo riusciti a avere un figlio nostro. Eppure lo avremmo tanto desiderato! Maggie ha avuto tre aborti e quando ci hanno detto che anche solo il tentativo di un’altra gravidanza avrebbe messo in pericolo la sua vita io non ho voluto più tentare.
Ci tenevo troppo a lei!
Forse adesso che si sono inventati tante diavolerie non sarebbe stato così difficile avere un bambino come ai tempi nostri.
Si vede che doveva andare in questo modo.“Vuol dire che siamo destinati a rimanere una bella coppia di innamorati – le dicevo per consolarla – e questo è un gran privilegio. Se continueremo a rimanere sempre insieme, senza la scusante o l’alibi dei figli, come succede nella maggior parte dei matrimoni, vorrà dire che il nostro è un vero amore !’’
E così è stato .
Noi ci siamo bastati, ci completavamo e per essere felici ci era sufficiente stare l’uno accanto all’altro.
25-12-1997
Ho trascorso la sera della vigilia e il giorno di Natale con le mie nipoti e mio fratello. Ho potuto godere di un’ottima cena a base di pesce e un pranzo natalizio eccellente con lasagne, cosciotto di agnello al forno e un’infinità di dolci.
Una tavolata di gente, parenti più o meno vicini, allegri e pieni di un sano appetito. Dopo ci siamo riuniti tutti vicino al Presepe e all’albero di Natale per scartare i doni. A me hanno regalato un paio di guanti, una sciarpone di lana, un pigiama, una vestaglia di flanella e un paio di pantofole. Regali degni di un matusalemme invalido, ma io non ho nessuna intenzione di trascorrere il resto della mia vita in pantofole, pigiama e vestaglia!
Devo aver fatto una faccia assai delusa quando li scartavo, cosicché le mie nipoti si sono affrettate a dirmi: “Questi regali te li godrai adesso che non stai ancora tanto bene, ma non appena ti sarai ripreso ti faremo dono di una bicicletta nuova, così te ne potrai andare a zonzo come una volta per il paese.’’
Alla fine della giornata abbiamo giocato a tombola e io, fatto stranissimo, ho vinto più di una tombolata. Sarà vero il detto sfortunato al gioco chi è fortunato in amore. Per me, ormai abbandonato dall’amore, è rimasta la fortuna nel gioco! Ma ne farei volentieri a meno, pur di riavere la mia Maggie!
Nel corso di questa giornata il mio pensiero è andato a un altro Natale, quello dell’anno 1945. Il tredici ottobre mi ero imbarcato sulla portaerei Batoon per rientrare in Italia dopo una lunga prigionia di guerra.
Erano quasi cinque anni che non facevo ritorno al mio paese.
Con i miei commilitoni dividevo la speranza di poter trascorrere il Natale con le nostre famiglie che ci aspettavano e non parlavamo d’altro, delle gran mangiate e delle dormite in letti comodi e puliti che ci aspettavano nelle nostre case.
Dopo aver passato tanto tempo fra pericoli e disagi i nostri desideri erano semplici e sarebbe bastato veramente poco per renderci felici.
Fummo fatti sbarcare a Napoli il ventuno dicembre e presto, speravamo, ci saremmo riuniti ai nostri cari. Ma …ci fu un terribile ma della burocrazia militare che si frappose tra noi e le nostre speranze.
C’era di mezzo una domenica e gli ufficiali della base non vollero in nessun modo svolgere in un giorno festivo le pratiche che ci avrebbero consentito il congedo immediato e così, dopo anni di guerra, di prigionia, di stenti e avversità, potemmo partire solo dopo alcuni giorni e fummo costretti a trascorrere il nostro Natale stipati dentro i vagoni di un vecchio treno senza finestrini, ammucchiati su sedili sfondati pullulanti di cimici e di pulci e con i cuori gonfi di delusione .
2-1-1998
Ho trascorso le feste di Capodanno a casa di mio fratello in un’atmosfera di gioiosa esuberanza creata soprattutto dalla presenza dei suoi numerosi giovanissimi nipoti e in loro compagnia sono stato veramente bene, anche se mi sono trovato a fare delle riflessioni che mi hanno lasciato un po’ di tristezza nell’animo.
A suo tempo accettai il fatto della impossibilità mia e di Maggie di avere figli senza provare un eccessivo dispiacere.
Invece, cosa strana , adesso certe volte mi rammarico di non avere nessun nipote diretto. Ho visto come mio fratello guarda i piccolini figli dei suoi figli e si compiace quando qualcuno di loro ha in comune con lui qualche somiglianza fisica o caratteriale.
I figli e i nipoti rappresentano un modo di garantire la sopravvivenza di una parte di sé nel tempo, come una sorta di immortalità.
Rientrato a casa con questo pensiero ho riletto qualche passo del Convivio di Platone: “la natura mortale tende, sempre, per quanto le sia concesso, di essere immortale. E le è possibile in un modo soltanto, attraverso la procreazione, per cui essa lascia sempre un essere nuovo al posto del vecchio…’’ .
A me questo privilegio è stato negato, con me scomparirà ogni cosa di me …però se cerco di fissare i ricordi del mio passato sulla carta, come mi è stato suggerito, forse qualcuno li leggerà e qualcosa della mia vita rimarrà…
Allora mi sono messo d’impegno a scrivere riprendendo il filo interrotto delle mie memorie.
Ho ripensato alla mia celebrazione del Capodanno nel lontano 1943. Avevo ventitre anni e facevo parte di un esercito che, dopo aver combattuto in Africa settentrionale batteva in ritirata a sud di Tripoli, in pieno deserto libico dove non c’era nient’ altro che sabbia e sassi. Io comandavo un plotone di tre carri di fanteria senza copertura.
Il trentuno dicembre la sera era limpida e chiara e io mi ero prenotato per il turno di guardia notturno perché desideravo rimanere solo con i miei pensieri. Seduto sulla torretta di un carro armato scrutavo nel buio mente la mia mente vagava, volava lontana.
A mezzanotte in punto augurai il buon anno nuovo ai miei genitori e ai miei fratelli lontani e a me stesso che gratificai con due sorsi di un liquore che avevo tenuto in serbo per l’occasione.
Non piansi, anche se ne avevo un gran desiderio, un guerriero come me non poteva assolutamente farsi vincere dalla commozione!
Nel bel mezzo dei ricordi mi sono appisolato sulla poltrona e quando mi sono svegliato mi sono ritrovato il viso bagnato, forse nel sonno mi sono sfogato con il pianto che avrei voluto fare tanti anni fa.
Quando si è vecchi c’è almeno il vantaggio di potersi permettere di fare qualche concessione ai propri sentimenti !
9-1-1998
Orsù, mettiamoci a scrivere le mie righe quotidiane!
Purtroppo le mie dita non stringono ancora bene la penna che non scorre agile sui fogli e le parole che vengono fuori sono quasi illeggibili.
Oggi nove gennaio dell’anno nuovo è una giornata piena di sole. Ho colto nel giardino tre rose, belle e profumate e le ho poste dinnanzi alla fotografia di mia moglie che tengo sul mio comodino.
Ogni volta che la guardo mi sembra che con il suo sorriso mi ringrazi del ricordo costante che ho di lei e del mio amore rimasto intatto anche dopo la sua morte.
Era così bello quando noi due stavamo dentro la nostra veranda a parlare, a leggere, a fare tante altre cose…
Il tempo scorreva via sereno, piacevole e invece oggi io sono qui solo, soletto e i quasi cinquanta anni che abbiamo passato l’uno accanto all’altra mi appaiono come un sogno.
Oggi per me anche i ricordi più belli hanno l’amaro sapore delle cose perdute per sempre e che non potranno mai più ritornare.
Vorrei dire dell’altro, ma le lacrime mi offuscano gli occhi e la mia mano non riesce a andare oltre…
15-1-1998
Pazienza! Sempre pazienza!
Ogni mia giornata comincia con una lotta.
Dalla mia pulizia personale, col rasoio che non vuole starsene aderente al viso e mi lascia intatti tanti cespuglietti di barba che mi fanno dannare, ai semplici gesti che mi sarebbero indispensabili per vestirmi.
Anche se va meglio mi devo concentrare e sforzare come se dovessi compiere delle grandi imprese e per me lo sono ! Mettere i calzini e le scarpe rappresenta un vero problema, non riesco a piegarmi bene in avanti e le calze non entrano nei piedi, i lacci delle scarpe si attorcigliano e non si annodano…
Non essere più completamente padroni e comandanti del proprio corpo è veramente un gran guaio!
Quando devo rifarmi il letto le lenzuola e le coperte invece di stendersi si aggrovigliano e pendono da tutte le parti.
Fortunatamente a giorni alterni viene una signora a mettere ordine in casa, altrimenti verrei sommerso dal caos.
30-1-1998
Da un po’ di giorni non prendo in mano il mio diario. Sono proprio una scolaro svogliato, ma spesso non so cosa scrivere. Eppure di argomenti e di episodi da ricordare ne avrei in abbondanza . Oggi parlerò della mia vita militare durata ben cinque intensi anni. Eravamo nel 1941, in piena guerra, quando nei primi giorni del mese di febbraio mi giunse la chiamata alle armi.
Dovevo presentarmi a Bologna, presso la scuola carristi per frequentare un corso di allievo ufficiale. Lasciai a malincuore la famiglia, l’ amichetta del cuore e gli amici e partii. La caserma era un bell’edificio dalle camerate luminose e ampie che accoglievano trecento allievi .
Appena arrivati ci rasarono a zero i capelli, poi ci lasciarono liberi di girare per la città per due giorni. Era veramente buffo vedere le strade del centro affollate di teste rapate sguinzagliate alla caccia di femminucce, con le quali volevamo fare amicizia o semplicemente chiacchierare. Le ragazze ci sfuggivano ridendo e non ci davano confidenza, però era divertente.
Quando ebbe inizio il corso ci impegnò moltissimo, perché era veramente duro e non ci lasciava libero nessun momento della giornata. Alla mattina c’erano le esercitazioni, la ginnastica e le marce e nel pomeriggio ci impartivano pesantissime lezioni di teoria. I pasti non erano particolarmente raffinati, ma bastavano a saziare i nostri robusti appetiti. Durante il corso io, che avevo diverse fisime sul mangiare, ero talmente affamato che , oltre al riso e alla pasta sempre scotti e mal conditi, imparai a mangiare anche le cipolle rosse affettate che a volte ci servivano come contorno. Quando era il momento mi buttavo sul cibo con avidità e non alzavo la testa se non prima di aver ripulito il piatto, ma con tutta l’attività fisica che facevo non ingrassai di un etto
La disciplina era rigorosa, doveva essere scrupolosamente osservata e ogni minima infrazione veniva punita severamente.
Io che ero piuttosto disciplinato di punizioni ne ricevetti ben poche.
Per scendere dal dormitorio del secondo piano al primo piano dove c’era la mensa invece delle scale, come avremmo dovuto, noi reclute preferivamo servirci di una pertica che collegava i due piani e scendevamo uno dietro l’altro spesso urtandoci e facendoci male a vicenda con grande divertimento fino a quando i superiori ce lo proibirono.
Il nostro impegno più piacevole era la scuola guida.
A quel tempo quasi nessuno sapeva guidare e per noi ragazzi giovanissimi fu fantastico imparare a condurre moto, autovetture e, infine, carri armati.
Era esaltante!
All’interno dell’abitacolo dei carri armati ci sentivamo potenti come non mai e credevamo di essere capaci di sconfiggere qualsiasi genere di nemico.
Terminato il corso diventai sottotenente e a me, che avevo ventidue anni, vestito con la mia elegante divisa di ufficiale, mi pareva di essere diventato un vero uomo.
17-1-1998
Sono stato in visita dalla Professoressa che mi ha trovato migliorato, non mi ha cambiato terapia e mi ha incoraggiato a proseguire il mio diario, che ha trovato interessante.
Mi ha tenuto nel suo studio quasi due ore e si è dimostrata, come la volta precedente, molto umana e comprensiva.
Le ho raccontato come per un periodo di dieci anni la vita mia e quella di mia moglie è stata confortata dalla presenza di un barboncino bianco chiamato Riccio, che seguiva Maggie passo passo dentro e fuori casa e la guardava come se fosse la sua divinità scesa in terra. Al cagnolino che ci capiva e si faceva capire perfettamente gli mancava solo la parola. Dormiva su una poltroncina che avevamo messo accanto al nostro letto e ogni mattina ci svegliava con una leccatina sulla faccia. Era abituato a mangiare in cucina con noi, ma un giorno che dovevamo intrattenerci a pranzo con degli ospiti che avevamo invitato a casa nostra gli mettemmo la ciotola con il suo cibo in giardino. Allora lui la prese con i denti e la riportò dentro perché voleva desinare insieme ai suoi padroni e ai loro amici. Quando morì per un infarto per noi fu un grande lutto che possono capire solo le persone che amano veramente gli animali e la Professoressa è una di queste.
Anche lei ha un cane e mi ha detto che suo figlio ha imparato a camminare appoggiandosi e reggendosi al suo dorso.
Io sono convinto che anche gli animali abbiano un’anima, che Riccio se ne stia felice e beato insieme a Maggie e che tutti e due mi stiano aspettando.
Quando ho chiesto alla Professoressa che cosa ne pensasse lei mi ha risposto che non sapeva darmi una risposta e che sulle asserzioni della religione e sulla sopravvivenza dopo la morte lei è ancora molto dubbiosa. Però poi ha aggiunto che rispetta le credenze religiose e che invidia tutti coloro che hanno la fede, come me, perché possono trarne un gran conforto.
La prossima volta che andrò a trovarla voglio parlargliene ancora, perché mi piacerebbe poterla convincere o quanto meno avvicinarla alla religione.
Certe volte quando la guardo bene mi appare un pochino triste, invece quando ride è veramente bella.
19-1-1988
Faccio ritorno ai miei ricordi.
Subito dopo essere diventato sottotenente fui mandato in licenza a al mio paese dove mi potetti pavoneggiare con la mia nuova divisa.
Dopo pochissimi giorni però fui costretto a ripartire : destinazione Libia.
Ero stato assorbito senza scampo negli inevitabili e terribili ingranaggi della guerra. Il trasferimento in zona di guerra fu fatto con l’ aereo per gli uomini e con la nave per tutti i mezzi di trasporto e di battaglia ( jeep, moto, autocarri, carri armati, semoventi, ecc).
Era la prima volta che viaggiavo in un mezzo aereo e fu esaltante vederlo mentre si staccava da suolo per infilarsi fra le nuvole. Non dimenticherò mai la bellezza dell’infinita distesa del mare vista dall’alto.
Partimmo da Lecce e atterrammo a Dune per imbarcarci su una nave portaerei. Passati alcuni giorni di navigazione con un mare agitatissimo che fece vomitare la maggior parte dei soldati (io per mia fortuna rimasi in ottima salute e ne approfittai per divorare i cibi migliori dei pasti avanzati dei miei compagni che si sentivano male) arrivammo a El Alamein.
La famosa Linea di El Alamein era un fronte di 65 chilometri dove il deserto si restringe a formare un collo che va dal mare alla Depressione di Bab el Qattara e dove l’esercito degli alleati si era ritirato dopo l’ingresso e la penetrazione in Egitto delle forze dell’Africa Korps italo-tedesco e la sua conquista di Marsa Matruh .
Il battesimo del fuoco lo ricevemmo dagli aerei inglesi che giorno e notte mitragliavano la strada e il deserto.
Era il mese di luglio e in quel periodo la sabbia e i sassi del deserto erano intoccabili perché bruciavano per un accumulo eccessivo di calore.
Noi cercavamo di farci forti, ma in un posto dove non c’erano alberi, cespugli o ripari di qualsiasi genere era difficile resistere alle fatiche quotidiane che comportavano appostamenti, spostamenti continui e scontri a fuoco.
Fra i momenti più pericolosi che ho passato in qual periodo ne rammento uno in particolare. Eravamo accampati da tre giorni in una base, chiamata Base Azzurra, dove ci eravamo dati da fare scavando buche e trincee per mettere al riparo uomini e mezzi, quando una notte si scatenò all’improvviso l’inferno.
Aerei da bombardamento nemici ci avevano avvistati e, accorgendosi che eravamo privi di protezioni antiaeree, iniziarono a sganciare sulle nostre teste bombe su bombe per ore e ore.
Alcuni soldati, privi di esperienza e terrorizzati, saltarono fuori dalle buche credendo di mettersi in salvo.
Io con altri tre ufficiali fummo lesti a acchiapparne la maggior parte scaraventandoli di nuovo in trincea, ma per due di loro non ci fu niente da fare, mentre un terzo rimase gravemente ferito.
Uno fu crivellato in tutto il corpo da schegge e proiettili e morì agonizzando, l’altro perse metà della faccia.
Il commilitone rimasto vivo fu colpito a un braccio che, quando riuscimmo a riportarlo indietro, appariva maciullato dalla mano fino alla spalla, come una poltiglia di carni, stoffa della divisa e metallo.
Il dottore da campo cercò di pulirglielo, ma poi si dovette rassegnare a amputarglielo. Prima di operare gli disse quello che gli avrebbe fatto e il ragazzo, che avrà avuto al massimo diciannove anni, si mise a piangere e a singhiozzare come un bambino, scongiurandolo di salvargli l’arto:“ Per pietà, per pietà non lo dovete fare! Io sono giovane e non voglio diventare un infelice, nessuna donna mi vorrà monco e minorato . Io sono un falegname e senza il braccio destro come potrò lavorare? …per pietà.. abbiate pietà di me.’’
Noi piangevamo con lui e lo stesso dottore, che fu costretto a eseguire l’amputazione per salvargli la vita, aveva le lacrime agli occhi. Due compagni lo tennero fermo, un terzo gli posò uno straccio imbevuto di etere sul viso e, non appena perse conoscenza, venne operato e fasciato.
Per lui la guerra era definitivamente e malamente finita!
Quando sopraggiunse il mattino dopo quella terribile nottata constatammo con grande rammarico che quasi tutti i nostri mezzi di trasporto erano stati danneggiati, il deposito viveri era saltato per aria e la cisterna dell’acqua bucata in più punti.
Per fortuna presto arrivarono dei soccorsi, il ferito fu trasportato via per fare ritorno in Italia, i nostri mezzi furono riparati alla bella e meglio e ci furono consegnate nuove scorte di cibo e acqua.
22-1-1998
L’altro eri mi è scoppiata una febbre altissima che mi è arrivata fino a 40 gradi e che mi ha buttato molto giù. Oggi che la temperatura è scesa a 37 gradi mi accingo scrivere un altro po’, sempre dei miei trascorsi bellici.
La prima battaglia di El Alamein che durò dal 1 luglio al 27 luglio 1942 fu una battaglia consistente in una serie attacchi e contrattacchi che si svolsero sul fronte tra l’Afrika Korps italo-tedesco sotto il comando di Erwin Rommel, e l’ottava Armata britannica sotto il comando del generale Claude Auchinleck.
Durante quel periodo una mia impresa riguardò il difficile recupero di due carri armati in un campo minato.
Il mio comandante di battaglione, che era un uomo sempre allegro che ci contagiava con il suo ottimismo, scommise con un caporale suo amico che sarebbe riuscito a far effettuare l’operazione senza danni e vinse la scommessa, che consisteva in una bottiglia di vino e diversi soldi.
L’incarico del pericoloso recupero venne affidato a me e a una squadra di soldati da me scelti.
Ricevuto l’ordine mi recai sul posto dove si trovavano i due mezzi che non ci potevamo permettere di perdere.
I carri, che se ne stavano immobili al centro di una radura sabbiosa, sembravano quasi sfidarmi. Io incominciai a farmi avanti in loro direzione con estrema lentezza tastando il terreno cautamente con i piedi a ogni passo.
Giunto vicino a uno dei due mostri agganciai delle corde robuste ai suoi vari sportelli e tirandole riuscii a farli aprire, entrai e molto cautamente ne ispezionai tutto l’interno, compreso il vano motore.
Constatato che ogni cosa era in ordine attaccai alla parte anteriore del carro una grossa fune e diedi l’ordine di tirare.
Nonostante il coraggio che volevo dimostrare ero madido di sudore e il cuore mi batteva all’impazzata.
Per il secondo carro operai nella stessa maniera e misi in salvo anche quello fra gli applausi e le grida dei miei ragazzi.
Terminata la pericolosissima manovra io e i soldati ritornammo al campo dove ricevemmo le congratulazioni gratificanti del comandante : “E bravo il nostro Conte e bravi pure i suoi soldati!’’ e basta. Il rischio era stato enorme, la fatica e la tensione pure, la ricompensa grama. Ma quando si hanno solo venti anni le delusioni passano presto. Ci consolammo con una sostanziosa cenetta a base di gallette stantie e carne in scatola.
23-1-1998
Non era un bel vivere in Africa durante quelle giornate!
Nel deserto non sembravano esistere animali ad eccezione delle mosche.
Ogni volta che ci addentravamo in una nuova zona nell’immediato non c’era nulla che ci desse particolare fastidio, mentre già il giorno seguente faceva la sua comparsa qualche mosca, passati due o tre giorni le mosche aumentavano fino a formare dei nugoli e ci seguivano insistenti, ronzanti, assetate. Si posavano sugli angoli della bocca, sulle fessure del naso, sugli occhi ed era impossibile liberarsene, le cacciavamo e ritornavano a sciami. Con i loro assalti era anche difficile mangiare, si avventavano su qualsiasi cibo, anche sulle semplice fette di pane, dovevamo scansarle con una mano e con l’altra portare in fretta il mangiare alla bocca, e non era raro trovarci a masticare qualche schifoso insetto ronzante.
Per il gran caldo di cui ho già parlato indossavamo i calzoni corti e quasi tutti avevamo qualche cerotto sparso sulle gambe, perché in quei posti se ti facevi una ferita o un minimo graffio ci si formavano su delle grandi bolle che non guarivano mai.
Mosche a parte, c’era anche una gran quantità e varietà di parassiti che ci tormentava.
Nonostante i nostri tentativi di tenerci puliti il più possibile, pulci e pidocchi si annidavano e si riproducevano in lunghe file nelle cuciture dei vestiti.
Inoltre delle cimici scurissime si ficcavano in ogni anfratto delle divise e della nostra pelle succhiandoci il sangue a più non posso. Queste ultime erano terribili e ce le trovavamo attaccate al corpo, agli abiti e alla biancheria, negli zaini e nelle cassette da viaggio.
Una mattina mi misi seduto su di un grande sasso nero e, dopo qualche minuto, quando mi rialzai lo vidi diventato completamente bianco perché le infernali cimici che lo ricoprivano si erano affrettate a salirmi sul sedere e sulle mani, appropriandosi del mio posteriore e delle mie braccia dove fecero un lauto banchetto con il mio sangue.
Provai a levarmele da dosso con scarso risultato tanto che dovetti chiedere aiuto a due soldati che riuscirono a eliminarle solo bruciandole con la fiamma e ustionandomi le natiche e gli avambracci. Delle leggere scottature furono comunque preferibili al prurito doloroso provocato dalle punture delle bestiacce!
I nostri pasti erano costituti quasi sempre da pastasciutta e carne, spesso in scatola, l’acqua da bere, calda e con un sapore metallico di borraccia o legnoso dei contenitori, spesso era scarsa.
Oltre al rancio ci ingozzavamo di datteri e banane cercando di eliminarne le estremità di queste per paura dell’ameba.
Quasi tutti soffrivamo di dissenteria e alcuni di noi ne furono colpiti in modo così grave da dover essere rimpatriati.
Dormivamo accartocciati su noi stessi e scomodissimi sotto il riparo di misere tendine, molto di frequente ficcate per maggior sicurezza all’interno di qualche buca del terreno.
24-1-1998
In un primo momento la guerra non fu molto pericolosa specialmente per i reparti di prima linea che subivano solo saltuariamente qualche tiro di artiglieria e qualche raffica di mitragliatrice.
Stavano peggio i soldati delle retrovie che venivano bombardati e mitragliati giornalmente dagli aerei.
Correvano grave pericolo di vita anche i soldati che percorrevano le strade del deserto a bordo di qualche vettura, facile bersaglio delle pattuglie volanti che si accanivano contro qualsiasi genere di automezzo e contro le motociclette.
Anch’io ebbi la ventura di diventare un bersaglio aereo. Mi trovavo alla guida di un moto furgoncino nel bel mezzo di una grande spianata di sabbia quando venni avvistato da due aeroplani inglesi che volavano in coppia.
Resomi conto che si stavano abbassando e che puntavano contro di me feci un brusco cambio di direzione, mi diressi un po’ in avanti e saltai agilmente per terra riuscendo miracolosamente a sfuggire alle raffiche delle loro mitragliatrici.
Risalito a bordo, mentre stavo ancora ringraziando il cielo per lo scampato pericolo, vidi che i due nemici volanti stavano virando per avermi di nuovo sotto la loro mira. Allora feci la medesima manovra, sterzata brusca, fuga e salto finale lontano dal furgone. Gli aerei virarono di nuovo. Ripetemmo questo giostrina per altre quattro volte con un certo divertimento da ambo le parti, finché gli aerei decisero di andarsene. Anche se pensavo di essermi spassato senza aver provato la minima paura, una volta cessato il gioco, mi ritrovai impolverato, sporco, stracciato e con le mani sanguinanti che mi tremavano più di quanto non facciano adesso.
In seguito fui molto fortunato perché venni mandato a dirigere l’officina del mio battaglione che si trovava a venti chilometri dal fronte e, anche se ero investito di numerose responsabilità, non corsi mai seri pericoli di vita.
Gli scontri definiti come Prima battaglia di El Alamein, anche se avevano bloccato l’avanzata delle forze dell’Asse, finirono nello stallo fino all’agosto 1942 quando il generale Montgomery prese il comando dell’Ottava Armata alleata e allora furono guai grossi per tutti noi .
26-1-1998
La schiacciante superiorità del nemico fu decisiva.
Alla vigilia della seconda battaglia di El Alamein l’Afrika Corps dei tedeschi e degli italiani disponeva di 80.000 uomini di cui 27.000 italiani, di 200 carri armati e 345 aerei, di cui 129 tedeschi e 210 italiani, mentre il generale Montgomery disponeva di 230.000 uomini, di oltre 100 carri armati e 1000 aerei, caccia e bombardieri modernissimi. I numeri delle dotazioni nostre e dei nemici le posso riportare con esattezza perché me le ero appuntate su un quadernetto che ho scritto poco prima che terminasse la guerra e che ancora conservo.
Fu un periodo durissimo e di estrema pericolosità per ogni combattente. Si sentivano sparare in continuazione i cannoni e gli aerei che volavano sopra le nostre teste non ci davano un momento di tregua, gli attacchi e contrattacchi seminavano distruzione e morte.
Infine anche il mio battaglione dovette entrare in azione. In pochissimo tempo diciotto carri armati nostri vennero incendiati dai colpi micidiali di quelli dei nemici e morirono sei ufficiali e diversi soldati. Io venni inviato per un giorno sulla linea del fuoco dove c’era l’inferno.
Il 2 novembre il generale Montgomery fece scattare l’operazione Supercharge, ossia Colpo di Ariete e il 4 novembre in piena avanzata riuscì a aggirare lo sbarramento anticarro italo- tedesco.
Noi soldati italiani combattevamo senza tregua con coraggio e capacità, ma le armi a nostra disposizione erano inferiori per numero e qualità rispetto a quelle dei nemici che erano di gran lunga superiori a noi anche di numero, e presto fummo battuti dagli inglesi.
Però, nonostante la sconfitta inflittaci, le truppe di Montgomery non riuscirono ad accerchiarci completamente e così ebbe inizio il tremendo periodo della ritirata da El Alamein.
Eravamo desolati, quante fatiche avevamo compiuto inutilmente e quanti uomini bruciati all’interno dei carri, o dilaniati dalle bombe e dai proiettili erano state sacrificati per niente!
Quando giunse l’ordine ufficiale della ritirata prendemmo su le cose essenziali e pochi viveri, abbandonando a malincuore tutto il resto e ci allontanammo imboccando la via della fuga. I supersiti furono circa 70.000 .
27-1-1998
Oggi non mi sono sentito bene e sono stato dal medico che mi ha prescritto un elettrocardiogramma e delle analisi.
Ho telefonato anche alla Professoressa che mi pregato di informarla sui risultati di questi esami e mi ha dato un appuntamento per il giorno tre del prossimo mese. Voglio continuare la mia cronaca per dimostrarle che seguo i suoi consigli.
Quanta terribile e miserabile confusione regnava per le piste del deserto affollate da mezzi di ogni genere e da uomini laceri, sporchi, appiedati, impauriti e disperati perché temevano di essere presi prigionieri!
Gli aerei inglesi che volavano, spesso serrati formando come una cappa minacciosa su di noi, e le avanguardie dell’esercito inglese continuarono a seminare vittime su vittime seguendoci lungo tutto un lunghissimo percorso, che ci pareva interminabile, di 34.000 km fino alla Tunisia. In questo modo ebbe fine la battaglia più decisiva della II guerra mondiale che, oltre a segnare il punto di svolta nella Campagna del Nord Africa, mise fine alla minaccia italo – tedesca sul canale di Suez e assicurò agli inglesi il dominio assoluto sul mare Mediterraneo.
Durante la ritirata mi venne affidato il compito di dirigere l’officina viaggiante che si occupava della riparazione dei vari mezzi della Divisione corazzata e, man mano che procedevamo, il mio reparto si ingrandiva prendendo in carico i camion, le moto, i carri armati e i semoventi dei battaglioni che si scioglievano.
Io viaggiavo un po’ a bordo di un autocarro e un po’ a bordo di un carro armato e con questo mezzo i tragitti non erano particolarmente piacevoli. Fracasso, scossoni, e polvere a non finire che si infilava dappertutto e mi ricopriva il viso trasformandomi in una specie di mummia e spesso non avevo acqua per sciacquarmi il viso.
Dovevo impegnarmi per non farmi requisire i mezzi di cui ero responsabile dai tedeschi prepotenti che volevano sempre la precedenza assoluta su ogni cosa e dovevo fare in modo di tenere uniti e attivi i miei uomini cercando anche di procacciare e garantire loro cibo e acqua quotidiani. Io sentivo molto la responsabilità dei ragazzi che si affidavano a me con estrema fiducia.
Ogni tanto qualche nostro soldato cadeva sotto colpi dei nemici, ma a quelle morti ci eravamo quasi abituati.
Non riuscimmo, invece, a darci pace per un incidente che ci fece perdere un uomo che stando seduto sul bordo di un autocarro venne agganciato per le gambe da un altro nostro autocarro che gli stava appaiato.
Il soldato perse l’equilibrio, cadde e il suo corpo rimase schiacciato fra le fiancate dei due automezzi che procedevano a sbalzi sul terreno irregolare.
Sempre combattendo per difenderci dall’Egitto giungemmo finalmente in Libia e ci fermammo a Tripoli. Lì restammo fermi per tutto il periodo delle festività natalizie del 1942 nella zona del villaggio Garibaldi.
Il giorno di Natale assistemmo alla Santa Messa celebrata su un altare approntato sul cofano anteriore di un autocarro. Malgrado le scarse scorte a nostra disposizione eravamo riusciti a allestirci un suntuoso pranzo natalizio.
Io dando fondo a una piccola provvista di farina l’avevo impastata con l’acqua e poi spianata e tagliata ricavandone delle tagliatelle grossolane che andarono a ruba. Preparai anche un surrogato di caffè servendomi di una macchinetta napoletana che i miei soldati dell’officina avevano ricavato ingegnosamente dal lamierino di due scatolette di carne.
A fine pasto sentendo il dovere di brindare con qualche bevanda trangugiammo un infimo liquorino frizzante, ottenuto facendo sciogliere in acqua calda un miscuglio di zucchero, caramelle e bicarbonato, un intruglio veramente disgustoso !
La sera ci immalinconimmo perché i pensieri di noi tutti andarono inevitabilmente alle nostre famiglie che, ignare del nostro destino, pregavano e piangevano per noi. Nei primi giorni dell’anno nuovo arrivò la comunicazione della necessità del distacco di un ufficiale presso un battaglione carri e toccò a me. Lasciai con vivo dispiacere i miei amici e presi il comando di un plotone di tre carri M11/39 schierati nel deserto a sud-est di Tripoli per tentare di bloccare le puntate offensive degli inglesi.
Ci furono più scontri e durante l’ultimo io mi battei come un leone. Sparai a più non posso facendo diventare il mio cannone incandescente e quando il combattimento ebbe termine uscii dall’abitacolo del mio carro sporco, rintronato e spaventato.
Mi accorsi della mia paura solo quando la sera tentai di mangiare qualcosa, i miei denti serrati si urtavano fra loro e sentivo delle martellate violente nel cervello, perciò riuscii a ingoiare solo il liquido di qualche cucchiaiata di piselli lessi in scatola.
28-1-1998
Ho fatto l’elettrocardiogramma e delle analisi e il cardiologo e il mio medico curante mi hanno detto che un po’ di tempo fa ho avuto un infarto leggero e che nel mio cuore c’è qualcosa, non ho capito bene cosa, che non funziona. Mi hanno prescritto delle medicine e molto riposo, ma io aspetterò a prenderle fino al tre febbraio, perché voglio il benestare della mia Neurologa .
Intanto cercherò di finire il racconto della mia vita passata.
Nei giorni a seguire, nonostante il grande impegno messo nei nostri tentativi di attacco, la corazzatura dei carri armati nemici si rivelò impenetrabile da parte dei piccoli cannoni italiani da 37 mm, così dovemmo presto desistere e riprendere la marcia di fuga diretti verso la Tunisia.
Il carburante di tutti i reparti era ridotto agli sgoccioli, e, quando finiva , gli autocarri e i carri armati venivano quasi sempre abbandonati. Io ogni volta che ne vedevo uno facevo in modo di danneggiarlo irrimediabilmente, manomettendo il motore o dandogli fuoco per renderlo inutilizzabile da parte dei nemici.
Durante l’addestramento ci avevano assicurato che con i nostri armamenti e la nostra preparazione avremmo ottenuto di sicuro la vittoria e noi giovani pieni di ideali patriotteschi ci avevamo creduto ciecamente.
Che delusione! Che smacco doversi ritirare per chilometri e chilometri esposti a tutte le offese e privi di difese!
E poi dicono che gli italiani in Africa non hanno combattuto! Forse non tutti, ma tanti altri si sono comportati al pari di eroi senza la soddisfazione di ricevere il minimo riconoscimento.
Di giorno il clima era piacevole, ma di sera calava un gran freddo. Per ripararmi io indossavo un maglioncino di lana con il collo rovesciato che con il sudore, la sabbia e la polvere si era indurito. Quando ne potei fare a meno tentai di ripulirlo, ma accortomi che quel collo rigido per lo sporco era diventato il ricettacolo di numerose tribù di giganteschi pidocchi me ne sbarazzai disgustato e senza indugio. In genere si sostava al massimo per due giorni in un posto e subito si riprendeva il cammino.
Durante il nostro faticoso tragitto ci capitò di doverci scontrare anche con gli americani che non ci andarono teneri e, vinti i nostri deboli tentativi di resistenza, ci costrinsero a riprendere la nostra marcia di sconfitti.
Devo smettere perché sono stanco e la penna mi cade di mano. Domani resterò a letto tutto il giorno e riprenderò a scrivere.
29-1-1998
Una piacevole sosta la facemmo in un’oasi lungo la costa, un posto fantastico! Un’infinità di palme di tutte le altezze, unite in gruppetti o isolate e tanti rivoli di acqua fresca che scorrevano sul terreno.
Ci piazzammo in quella località facendola da padroni e mostrando poco riguardo nei confronti dei suoi occupanti e degli abitanti dei villaggi vicini.
Il sorgere del sole nel palmeto era spettacoloso, ma ancora più bello e suggestivo il tramonto, che copriva il cielo di infinite e delicate sfumature di rosa e arancione, mentre ci raggiungeva la voce del muezzin che invitava gli arabi alla preghiera.
A proposito degli arabi devo confessare che il comportamento di noi soldati italiani nei loro confronti fu quasi sempre sprezzante e prepotente, li trattavamo da esseri inferiori e, ripensandoci adesso, me ne vergogno moltissimo.
Chissà chi ci credevamo di essere!
Anche se avevano la proibizione assoluta di frequentarci alcuni uomini di quel popolo affamato entravano egualmente nel nostro accampamento con lo scopo di guadagnare qualcosa vendendoci sigarette, datteri e dolcetti.
Quando ci imbattevamo in quei sudici mercanti gli requisivamo la merce e, nonostante i loro piagnistei e le loro proteste, li allontanavamo in malo modo.
Una volta sola non cacciammo un vecchio che era venuto a trovarci con due donne giovanissime. Non vedevamo femmine da mesi e eravamo parecchio affamati da quel punto di vista.
Facemmo entrare le ragazze in due tende e ci avvicendammo per dar sfogo ai nostri istinti di maschi a lungo repressi.
La giovane che capitò a me aveva una faccia bruttarella da negra , ma un bel corpo dalla pelle liscia e dai seni grandi, ma puzzava di sego.
Come i miei compagni non disponevo di nessun mezzo di protezione e come tutti gli altri mi presi lo scolo.
Dopo pochi giorni incominciammo, chi più chi meno, a soffrire di perdite gialle nelle mutande, bruciori durante la pipì e gonfiore doloroso dei testicoli.
Per fortuna il medico che stava con noi, che si era ben guardato dell’usufruire delle mercenarie, aveva ancora delle scorte di sulfamidici e quando si accorse dei nostri gocciolamenti incominciò a somministrarceli a grandi dosi finché non guarimmo.
4-2-1998
Nei giorni scorsi sono stato ancora male con il cuore, credo, ma, come avevo già detto, ho aspettato di vedere la mia Professoressa prima di iniziare la nuova cura.
Lei, dopo avermi visitato accuratamente e aver presa visione degli ultimi accertamenti, mi ha detto che, in considerazione delle mie attuali condizioni, io sono principalmente un malato sofferente di cuore e che in questo momento i problemi neurologici passano in secondo piano, anche perché da quel punto di vista mi ha trovato abbastanza bene.
Si è dimostrata preoccupata per me e, dopo avermi spiegato in maniera molto chiara ogni cosa ha telefonato al mio medico dicendogli che dovevo essere ricoverato al più presto in un reparto di Cardiologia, in modo tale da ricevere le cure necessarie e un’ adeguata assistenza. L’idea di trascorrere dei giorni in ospedale mi ha fatto rabbuiare. La Professoressa , resasi conto del mio repentino cambiamento umore, mi ha rassicurato. Cercherà lei stessa un buon reparto in un ospedale di sua conoscenza e mi verrà a trovare per accertarsi del mio stato di salute. E non appena migliorerò si interesserà per far affrettare la mia dimissione.
Sono rimasto toccato delle sue premure e quando sono andato via dal suo studio le ho chiesto il permesso di darle un bacio sulla guancia. Lei ha sorriso e ha ricambiato il mio bacio facendomi arrossire come un ragazzino.
Stasera mi hanno telefonato e ho saputo che verrò ricoverato nell’Ospedale San Camillo tra tre giorni e mi sono messo a preparare la valigia con gli indumenti e le cose che mi potranno servire durante la degenza.
Prima di andare via da casa, però, devo ricordarmi di portare con me il diario che contiene una parte delle memorie della mia vita perché voglio finirlo per regalarlo alla Professoressa quando riceverò la sua visita.
8-2-1998
Stamani sono entrato in ospedale e adesso mi trovo già in un letto del reparto di Cardiologia. Nella mia stanza c’è un altro letto, ma non è occupato.
Mi hanno fatta la prima vista, un altro elettrocardiogramma, un ecocardiogramma, i prelievi per le analisi e ho conosciuto il primario che mi ha detto di essere un grande amico della Professoressa .
Approfitterò di questo ricovero per stare riposato il più possibile , come mi hanno raccomandato i medici, e per proseguire i miei scritti.
Dopo la breve sosta nell’oasi che ci era costata una bella infezione ripartimmo per un altro ripiegamento raggiungendo Capo Bon.
Qui ci trovammo con gli inglesi a est e gli americani a ovest stretti in una morsa pronta a chiudersi intorno a noi. Riuscimmo comunque a arrivare in una zona limitrofa a Tripoli, dove ci trovammo piuttosto bene, i campi erano coltivati, le strade erano asfaltate e i paesi vicini , tra i quali Hammamet erano ben messi, abbastanza puliti e abitati da popolazioni non troppo ostili.
Soggiornavamo ancora lì quando l’11 maggio arrivò da Roma l’ordine di arrenderci.
Finito il periodo della fuga iniziava per noi il periodo della prigionia.
Non riuscivamo a rassegnarci, ci sembrava di aver buttato alle ortiche tutte le nostre speranze e le nostre aspettative.
Distrutto il materiale bellico superstite e fatti precipitare in un dirupo gli ultimi carri che ci restavano ci avviammo verso un accampamento di inglesi, i quali ci rinchiusero in una specie di campo di concentramento.
Dopo una sosta di qualche giorno all’aperto in un recinto circondato da filo spinato, fummo caricati e chiusi senza acqua né cibo per tre giorni sul carro bestiame di un treno che ci portò in località Noce Noire, situata all’interno della Tunisia.
Nel nuovo campo di prigionia inglese si stava male: dormivamo stretti e accatastati in dodici in una sola tenda e ogni giorno ci venivano dati da mangiare una sola fetta di pane e cibi crudi perché era vietato accendere il fuoco.
Abituati com’eravamo a stare sempre in attività ci annoiavamo.
Per passare il tempo molti giocavano a carte e io mi misi a fare il lattoniere ricavando da contenitori di latta vuoti, casseruole varie, piatti, e posate che distribuii ai miei commilitoni.
Per fortuna dopo pochi giorni fummo consegnati agli americani che, dopo averci stipati su dei carri, ci portarono in un loro campo di prigionia, ubicato in una zona desertica a pochi chilometri dal Marocco spagnolo.
Il campo grandissimo era formato da tanti blocchi, uno per gli ufficiali e gli altri per i soldati, in ogni blocco una parte era destinata agli alloggi, l’altra alle cucine e ai servizi.
Tre linee di filo spinato delimitavano la vasta area del campo e a ogni angolo erano collocate le torrette per le sentinelle armate di mitragliatrici. Per dormire fummo alloggiati in numero di dieci all’interno di grandi tende. I servizi erano schifosi, assenza totale di gabinetti e per i nostri bisogni avevamo a disposizione solo dei grandi bidoni maleodoranti che venivano vuotati ogni tanto, ma non troppo spesso.
Il terreno del campo era coperto da una polvere rossa impalpabile come borotalco che si sollevava mentre camminavamo e che ci si appiccicava addosso e si toglieva con difficoltà, dopo pochi giorni eravamo diventati tutti simili a dei pellerossa. In compenso il cibo era buono e saporito, dopo ogni pasto ci passavano un frutto e una mezza tavoletta di cioccolato amaro.
Anche in questo posto il nostro soggiorno fu breve.
Dopo una settimana fummo fatti salire su un altro treno per giungere finalmente in un porto di Tunisi, di cui non ricordo il nome, eppure ce l’ho qui sulla punta della lingua, da dove ci avrebbero fatti partire in direzione della lontanissima America.
Io e alcuni miei amici fummo imbarcati su una nave piccola e alloggiati nella zona di prua. Ce ne stavamo stipati in una specie di magazzino pieno di letti a castello che prendeva aria e un po’ di luce da un unico boccaporto. Ci facevano uscire sul ponte una mezz’ora al giorno e non saremmo stati tanto male se non ci avesse raggiunto una tremenda notizia.
Un tardo pomeriggio fu fatto circolare fra noi italiani un foglietto scritto in inglese che dava la notizia della caduta di Mussolini.
Increduli noi tutti pensammo a una falsa propaganda e ci mettemmo a cantare a squarciagola “Giovinezza, giovinezza…’’Non l’avessimo mai fatto!
Gli americani, temendo una ribellione, ci rinchiusero nella stiva e non ci fecero più uscire per il restante viaggio. Che tristezza durante quel viaggio: prima la sconfitta e poi la reclusione !
In seguito ci fu confermata la veridicità del comunicato: Mussolini, nelle cui parole di esaltante incoraggiamento e di promesse di conquiste avevamo ciecamente creduto, era stato deposto e arrestato.
Sbarcammo in America il giorno seguente il mio ventiquattresimo compleanno: il 2 agosto del 1943. Ciascun prigioniero fu interrogato a lungo, rasato, fatto lavare a fondo e disinfestato dai parassiti.
Indossammo delle divise americane pulite e rattoppate e con la scritta ITALY sulla manica destra e sulla bustina. Alcune divise dovevano essere appartenute a soldati americani morti o feriti perché presentavano delle macchie scure, sicuramente di sangue difficile da pulire, vicino a degli strappi della stoffa che erano stati ricuciti a macchina.
A me ne era capitata una con un bella lacerazione all’altezza del petto, ogni volta che mi toccavo il rattoppo pensavo al giovane soldato che l’aveva portata prima di me che, data l’ubicazione del colpo che l’aveva raggiunto, doveva sicuramente essere caduto in battaglia.
A bordo di un bel camion fui mandato prima nello stato del Missouri e poi raggiunsi la mia sede definitiva , Campo Patrik in Virginia, situato all’interno di un enorme bosco, dove potei usufruire di un’ottima sistemazione.
Dimoravamo in capannoni di legno, suddivisi in appartamentini con ingresso, due camere da letto e una bella stufa a carbon fossile che ci garantiva un buon riscaldamento. In un apposita baracca c’erano dei servizi igienici degni del loro nome, con gabinetti, docce e acqua calda e fredda a volontà. Poco lontano c’erano le mense, una per ciascun compagnia e con nostra grande gioia ci accorgemmo che quasi tutti i cuochi erano italiani anch’essi prigionieri, che riuscivano a cucinare in maniera appetitosa anche i cibi americani. Quando mangiavamo ci sembrava un po’ di ritrovare i sapori della nostra terra.
Nel campo c’erano anche due salette cinematografiche, numerosi negozi dove si poteva acquistare un po’ di tutto a buon mercato e un ospedale ben attrezzato, dove furono ricoverati tre ammalati di tubercolosi, due di malaria e la maggioranza di noi si faceva togliere e curare numerosi denti cariati.
Ai duecentoventi soldati italiani presenti furono affidarono diversi compiti, scelti in base alle loro capacità, c’erano autisti, meccanici, cuochi, inservienti, ecc e noi ufficiali avevamo l’incarico di dirigerli e sorvegliare il loro operato.
Saremmo stati molto bene se avessimo ricevuto delle lettere dai nostri cari con i quali non eravamo più in contato da diversi mesi. Eravamo in ansia perché le notizie che ci giungevano dall’Italia erano sempre più brutte, notizie di occupazioni, distruzioni, bombardamenti, morti, miseria, fame…
I prigionieri potevano ricevere in un bel salottino le visite di parenti o amici americani.
Io non avevo nessun conoscente negli Stati Uniti, però un giorno fui invitato da un capitano con cui avevo fatta amicizia a accogliere insieme a lui dei suoi lontani parenti italo-americani.
Mi aspettavo di vedere la solita gente anziana e chiassosa, ma grande fu la mia sorpresa quando mi vidi davanti due belle signorine. I miei occhi si posarono in particolare su quella che aveva una splendida chioma di boccoli rossi e un viso tondo, carino ravvivato da allegri occhi verdi e illuminato da uno splendente sorriso.
Quella signorina era la mia Maggie.
Si muoveva con grazia e indossava un vestito scuro che metteva in risalto un corpo femminile tutto curve, notevoli gambe lunghe e un bel seno abbondante. Parlava in un piacevole e divertente misto di italo – inglese e quando sbagliava e la correggevamo scoppiava a ridere allegramente.
In seguito venne a trovare solo me altre tre volte , perché le avevo fatto tenerezza con la mia aria di puppy (cucciolo) smarrito e finimmo con l’innamorarci.
Ci scambiammo cartoline, lettere e telefonate, ma il nostro amore appariva impossibile, perché c’erano un’infinità di ostacoli da superare: la prigionia, la guerra, il mare, la sua età (aveva quasi dieci anni più di me), le condizioni incerte in cui mi sarei ritrovato in Italia una volta libero….
Ma la forza del nostro amore riuscì a vincere ogni cosa avversa e dopo due anni il tre agosto 1945 ci sposammo in Italia, nella Basilica di Pompei.
Poche coppie sono state felici e affiatate come la nostra, abbiamo passato cinquant’anni anni di amore, fedeltà e serenità insieme fino a quando lei se n’ è andata con una rosellina tra le dita, portandosi “via per sempre il mio cuore ed il mio amore’’……sono stato contento di essermi ammalato dopo la morte della mia Maggie , la buona salute di cui ho goduto fino a tre anni fa mi ha permesso di assisterla con assoluta dedizione….
Ho ancora qualcosa da scrivere e devo affrettarmi a chiudere il diario, per poterlo consegnare come un mio regalo alla Professoressa per dimostrarle che ho fatto tutto come voleva lei, ho saputo che telefona ogni mattina per informarsi di me …..verrà presto a trovarmi…molto probabilmente domani…la sto aspettando con il batticuore del mio cuore malato e quando ci penso mi sembra che mi manca il respiro, forse sono un po’ innamorato di Lei, a quanto pare l’amore non ha età, ma non mi sento colpevole, non sto facendo un torto a Maggie, Maggie capirà…il cuore….
—————- Il signor Francesco Conte è deceduto all’improvviso per insufficienza cardiorespiratoria nell’ospedale in cui era stato ricoverato tenendo tra le mani il suo diario incompiuto…. che mi è stato consegnato dalla Caposala del reparto
Sinossi del romanzo l’ APE REGINA di Mariateresa Fiumanò e Maria Angelica Maoddi.
La protagonista Graziella è una bella donna ed estremamente egoista. Abile e ambiziosa scenografa, molto presa da sé stessa sia sul lavoro che in famiglia manifesta comportamenti tipici della “sindrome dell’ape regina” alla quale tutti devono obbedire e riverire.
Improvvisamente viene colpita da un ictus che le paralizza una metà del corpo e le rende impossibile parlare.
Con la malattia le sue caratteristiche caratteriali invece di regredire si accentuano e la sua cattiveria arriva al punto di farle commettere un delitto.
Anche se crede di tenere tutto sotto controllo in realtà suo marito e i suoi due figli, che sono stati sempre angariati e sottomessi, incominciano a rendersi conto della sua vera natura e se ne tengono lontani il più possibile.
Dopo due anni di semi-solitudine Graziella muore e al momento della morte le occorre un evento extrasensoriale.
Nell’epilogo del romanzo il marito Jacopo e i suoi due figli Carlo e Fabio alla sua dipartita provano un totale senso di liberazione e si rifanno una vita.
La donna, che è stata sempre scettica sulla possibilità di una vita oltre la vita, nel luogo dell’Attesa, come lo definisce lei, non sa cosa l’aspetterà e vaglia una seria di ipotesi che rispecchiano tutti i suoi dubbi sul Destino, in quanto anche se si è sempre ritenuta artefice in prima persona delle sue azioni rammenta una frase di Bauman: ‘nel dare forma alla nostra vita siamo la stecca da biliardo, il giocatore o la palla? Siamo noi a giocare o è con noi che si gioca?’
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