Scorrono Le Acque Tranquille…

Questo articolo è stato scritto e pubblicato da Maria Carmen Brandi.

Roma, olio su tela della pittrice Laura Corsi

Scorrono le acque tranquille….
È lo scorrere tranquillo e perpetuo delle acque,
che trascina le mie emozioni.
I riflessi delle luci dei lampioni
somigliano alle mie emozioni impigliate
nel movimento delle onde leggere.

Umide sono le tue carezze lente!

Le mani mi avvolgono….
Appena la mia pelle si contrae
al tocco.
Le acque scorrono perpetue.
Sorde!
alle mie emozioni!
Il crepuscolo mi avviluppa nel ciclo infinito della vita!

Rewind

Questo articolo è stato scritto e pubblicato da Maria Carmen Brandi.

“Amanti”
Per gentile concessione della pittrice Anna Cristino (clicca qui)

“Non riesco a non ammirare la profondità del suo sguardo! E gli occhi poi! Cerco di definirne il colore, forse nocciola, ma non è proprio così, perché l’iride ha sfumature verdi!”
Un sussurro sfiora l’orecchio di Emma.
È la voce di un uomo belloccio, non tanto alto, che si è alzato in piedi.
Nota subito la sua altezza, a lei non piacciono gli uomini troppo alti. La sua voce dal tono elegante, delicata e nello stesso tempo virile, ha suscitato la curiosità di Emma.
Dovrebbe essere stizzita da tanta intraprendenza, invece prova uno strano piacere nell’ascoltare le sue parole, ne è insolitamente attratta.
Lui continua a parlare, chino sulle spalle di Emma che concentrata sul tono della sua voce immagina singolari scene erotiche. Quasi ne prova vergogna. Proprio lei abituata ad un’educazione rigida e severa. Certi pensieri! Sono stati da sempre considerati tabù da sua madre. Discutere di sesso? Assolutamente no!
Emma è seduta in platea, in seconda fila, pian piano la grande sala in cui si sta tenendo la conferenza si riempie dei discorsi del pubblico. Il relatore sta facendo una pausa.
Lo sconosciuto dietro di lei continua a sussurrare parole.
La voce di lui si confonde con il vocio generale. Emma si volta cerca di interpretarne il labiale. L’uomo continua a chiacchierare, alza la voce, emettendo degli acuti:
“E’ anche molto elegante e il suo profumo così……!”
Mi chiamo Eugène! No! non sono francese e che i miei genitori amano la lingua francese, così mi ritrovo questo nome, un loro capriccio!
Emma è sempre più affascinata dalla sua sicurezza e ha l’impressione che la voce di Eugène si stia animando. Le lettere si levano dalle sue labbra e sembra assumano la forma di mani e braccia che la avvolgono, la accarezzano, fanno vibrare le sue membra. Teme che lui possa vedere i suoi pensieri, che possa cogliere le espressioni del suo viso e ciò che sta provando.
Si ricompone. Emette un suono strano simile ad un colpetto di tosse, come per ripulire i suoi pensieri.
“Mi chiamo Emma!”.
Lui incalza: “Possiamo fare due chiacchiere, ti posso trascinare via da qui, sei interessata alla conferenza?”
Emma viene completamente travolta da un turbinio di emozioni, come ipnotizzata, istintivamente dice che comprerà il libro del relatore e accetta.
L’atmosfera primaverile e il crepuscolo avvolgono Emma ed Eugène. Camminano tra le vie del quartiere Coppedé, uno dei più suggestivi di Roma, cercano le loro mani come se fosse tutto così naturale. Gli alberi in fiore, che costeggiano le vie, sembra li stessero aspettando con il loro profumo assordante. Rompono il silenzio parlano del tema della conferenza: la spiritualità nell’uomo e i temi new age. Accennano ai loro interessi, alle loro vite professionali, alle considerazioni sull’amore e agli altri lui e alle altre lei.
Emma si sente in sintonia con Eugène e lo segue, il vento caldo della sera è complice. Si accorge che si è fatto tardi e cerca di congedarsi, realizza che fa molta fatica ad andare via, lui è veramente attraente!
“Emma! Forse posso apparire troppo invadente! Devo chiederti se ti farebbe piacere rivederci.”
“Si! Va bene!”
“Domani?”
Lei non riesce a trattenersi: “Si!”
Emma all’indomani decide di riempire la mattinata di impegni e commissioni, non vuole pensare all’appuntamento con Eugène, non ha intenzione di nutrire chissà quali aspettative o pensare ai discorsi della sera prima.
Vuole ricominciare tutto da capo. Sente di rivivere il loro primo incontro, vuole ripensare a quella sera e capire se avesse provato le stesse emozioni, le stesse trepidazioni e quei pensieri animati da carezze e da piacere.
“Caro Eugène come ti stai vestendo? Quei pantaloni per il nostro il primo appuntamento. Cosa potrei pensare di te! Con quei pantaloni? Se vogliamo capire cosa ci ha fatto innamorare, forse anche l’abbigliamento ha avuto il suo ruolo!”
Emma sorride divertita.
Emma ed Eugène si guardano allo specchio, lei si trucca gli occhi accuratamente e lui sceglie dall’armadio un altro pantalone, si rasa bene il viso, si sente pronto, guarda lei e i suoi occhi.
Sono trascorsi dieci anni da quell’incontro, ne erano seguiti altri, alternati a vacanze insieme, alla carriera, a serate trascorse a progettare.
Emma e Eugène si erano ritrovati in chiesa a dirsi “Si!”. Un “Si” eternizzante che quando lo pronunci ti avvolge nel tepore della sicurezza del “per sempre”.
Erano stati felici e convinti del loro “Si!” Dopo dieci anni, però il “Si” manifestava delle crepe.
Il loro rapporto era stato costruito sulla fiducia e sulla lealtà. “La stima” era stata da sempre la maestra delle loro giornate, i suoi insegnamenti avevano suggerito decisioni e comportamenti dei due, che avevano rappresentato le maglie della loro storia. I figli: Giorgia e Marco erano il loro orgoglio.
Emma e Eugène stanno preparando il loro primo incontro, lei ha tra le mani il libro del relatore della conferenza “L’uomo può osservare la sua anima?”, titolo affascinante. Ne accarezza la copertina e comprende che sta accarezzando con avidità le pagine di quel loro primo incontro, prova all’improvviso un brivido e un’emozione.
Eugène aveva conservato negli anni la sua gentilezza ed eleganza, segue i gesti di Emma dallo specchio, riconosce la freschezza e l’ingenuità dei suoi pensieri gli stessi del loro primo incontro.
Emma si volta, trova gli occhi di Eugène, afferra quei dieci anni li stringe al petto, li coccola così come ha consolato dal pianto il suo primo figlio appena nato. Lui prova una grande tenerezza nel vedere l’espressione di lei, si avvicina e le sussurra: “Non riesco a non ammirare la profondità del suo sguardo! E gli occhi poi! Cerco di definirne il colore, forse nocciola, ma non è proprio così, perché l’iride ha sfumature verdi!”

I Passeggini Della Garbatella

Questo articolo è stato scritto e pubblicato da Maria Carmen Brandi.

Questa sera per le vie e le tra le ville della Garbatella si respira un’aria bella!
Non so perchè
Ma… me viene voglia de parlà romano
Come se qui ce fossi sempre stata
Invece ce so solo passata quarche vorta

Qui se sente la romanità quella d’arti tempi!
No! non capì male!
Non l’antichità de Cesare o d’Augusto
L’antichità dell’anima, quella del core

Qua sembra tutto vero
No come al centro
Che ce so tutti i negozi moderni
I i ristoranti per li turisti
E tanta confusione

A  la Garbattella ce so le mamme coi passeggini
E sta cosa  me riempie d’amore
Quanno me va de scene qua un po’ tra voi
Torno a la Garbatella e me vengo a ripià
La romanità!

Il Mio Oblio

Questo articolo è stato scritto e pubblicato da Maria Carmen Brandi.

In questo mare ti aspetto

nel mio oblio un tutt’uno con le onde

scaglie, lame lucenti

infilzano i pensieri

portati via dalla brezza.

In questo mare ti aspetto!

Pezzi Di Vita

Questo articolo è stato scritto e pubblicato da Maria Carmen Brandi.

Rosella Marcovaldi (sez. Pittura)

Pezzi di vita prendono la forma del mio cuore
Ogni angolo, ogni lembo
È colorato con toni chiari
con toni scuri,
sfumature muovono l’anima!

Se guardi proprio lì nel profondo ci sono occhi
Guardano con amore,
Gli altri là giù li vedi? Sono speranzosi
Vogliono l’amore, sognano l’amore!

Pezzi di vita lacrime di dolore, di nostalgia
Pezzi di vita cerco altrove
Pezzi vuoti da riempire di sole.
Tu cosa vedi lì lontano per il mio cuore?

Lo Specchio

Questo articolo è stato scritto e pubblicato da Maria Carmen Brandi.

Claudio si toglie la giacca, la ripone nell’armadio all’entrata. La casa è silenziosa, dà un’occhiata veloce nel salotto, è tutto in penombra.

Nel corridoio sente chiudersi una porta. È Luca, che con fare fiero e sicuro passa veloce davanti a lui, afferra la giacca di pelle, lo sguardo perso nei pensieri, fisso in avanti, sembra quasi non accorgersi del padre.

“Luca, esci?” “Luca!”

“Si, papà.”

“Hai letto il mio messaggio? Ti ho mandato un messaggio! Domani devi venire in ufficio, ti vorrei parlare di un lavoro, che penso, potrai seguire solo tu. Io dovrò partire e non sarò in città nei prossimi giorni. Ti aspetto!”

La voce di Claudio sembra amplificarsi nel corridoio. Luca si ferma sul portone, risponde dopo qualche minuto:

“Domani? Si verrò!”

Claudio va verso la cucina, continua a guardarsi intorno, getta lo sguardo sul Rolex al polso, è ancora presto, non c’è nessuno in casa, può riposare, la giornata è stata faticosa.

Si lascia cadere sul divano, allarga le braccia come per accogliere una chissà quale energia vitale che possa ridestarlo.

Respira profondamente, cerca nell’aria il profumo dei fiori nel vaso sul tavolo al centro del salone. Sono così belli che fanno pensare a essenze esotiche.

Vive in una villa fuori città. Anna, sua moglie aveva espresso il desiderio di abitare lontano dalla confusione.

“Troppa gente in centro!” Diceva.

In campagna avrebbero potuto godere della bellezza e delle comodità di una casa con un giardino, una fontana e magari di una piscina.

Lui aveva assecondato i suoi capricci, condividevano lo stesso amore per la natura e la vita appartata.

Claudio ripensa a Luca al suo carattere ribelle, quante volte lo aveva chiamato il preside, minacciando la sua espulsione da scuola, un istituto al centro della città frequentato dai rampolli dell’alta società.

Anna aveva riposto tante speranze in Luca e manifestato un’attenzione esagerata per quel figlio, il minore, l’altro, Federico aveva mostrato sin da piccolo di essere responsabile e sapere sempre cosa fare. Molte volte lui ed Anna si erano meravigliati di come riuscisse ad ordinare il suo zaino con i libri e i quaderni o come sedesse a tavola e non facesse storie per mangiare.

“Due ragazzi così diversi!”

Claudio, avvolto dal silenzio, chiude gli occhi, ha come l’impressione che ora i suoi pensieri prendano la forma di tele dipinte da un artista impressionista.

Proprio come quelli esposti nella pinacoteca del Musée d’Orsay, che aveva visitato una volta durante un viaggio a Parigi. La guida faceva notare la pittura singolare delle tele e i colori usati dagli artisti per suscitare in chi ammirasse le opere impressioni senza soffermarsi sui particolari.

In questa galleria di pensieri e ricordi, si ferma davanti ad un “pensiero-tela” ad un’impressione appunto.

Si rivede un anno prima, è con Anna per le vie del centro di Milano, sembrava un giorno come un altro, una passeggiata nelle vie addobbate per Natale, lei si ferma all’improvviso, è un po’ smarrita ed emozionata, lo guarda, fissandolo: “Luca e Giulia aspettano un bambino”.

Lui non appare sorpreso per la notizia, Anna distende il viso e lo abbraccia forte.

 Nella sua mente mille pensieri, ma uno domina sugli altri: “Sarò nonno!”.

Ricorda un brivido che gli attraversò la schiena e una strana emozione come un dejà vu.

 Continua la sua visita in questa galleria di “impressioni”: un altro “pensiero-tela” ritrae una macchina, un tramonto estivo. La strada è dritta, gli piace fare delle corse in auto, non c’è traffico e sfreccia veloce.

Da poco ha conosciuto Anna, una ragazza dai lineamenti latini e un corpo esile, ma perfetto.

Un bacio di sfuggita sulla spiaggia intorno ad un falò e da quel momento avevano deciso di frequentarsi.

Quella sera sta andando a prenderla, sono stati invitati ad una festa a casa di amici in comune.

 Nello stesso periodo aveva conosciuto anche un’altra ragazza, l’esatto contrario di Anna.

Lisa, bionda, chiara di carnagione e prosperosa, anche se molto giovane faceva pensare ad una femme fatale e ne era molto attratto.

Anna aveva un carattere dolce, sempre disponibile e non gli diceva mai di no, e quando lo chiamava e lo coinvolgeva nei tanti impegni mondani di quell’estate, non riusciva a rifiutare i suoi inviti e si ritrovava sempre accanto a lei a condividere ogni momento di quelle giornate calde e afose.

Ogni tanto vedeva anche Lisa, che invece era più aggressiva. Decideva sempre lei dove e quando si dovevano incontrare, questo comportamento lo indisponeva, ma non poteva fare a meno degli incontri furtivi, passionali e trasgressivi.

Proprio quella sera, la sera della festa, Anna salì in macchina, non riuscì a guardarlo negli occhi. Sembrò confusa, come indifesa. Questi atteggiamenti, a ripensarci dopo tanto tempo, avevano catturato Claudio e pensava che facessero di Anna una donna particolare, perché poi non era proprio così docile come appariva.

La vede lì, immobile, sul sedile. Lei gli prende la mano, abbassa lo sguardo, stringendo forte le sue dita, gli confessa di aspettare un bambino.

Claudio ritorna al “ricordo-tela” precedente. La notizia dell’arrivo di un nipotino aveva fatto riaffiorare emozioni contrastanti di gioia, paura e curiosità.

Come in uno specchio, rivede sé stesso venticinque anni prima, riaffiorano le stesse emozioni provate in quella macchina sportiva, la sua Giulietta rosso Ferrari, strappata al padre dopo tante insistenze, il simbolo della libertà, dei suoi viaggi e di quelle fughe, trasgressive con Lisa.

Si era accorto solo ora che il tempo trascorso assieme ad Anna aveva solo coperto, e non cancellato, la sensazione di stordimento e il brivido provati alla notizia della gravidanza. Proprio come l’onda, che riporta sulla battigia la sabbia che toglie e accumula continuamente, quelle impressioni di un tempo non erano state rimosse dalle onde degli anni, ma si erano accumulate ed ora erano lì, pronte a ritornare …

 Lui non si tirò indietro, si assunse tutte le responsabilità, rassicurò Anna, che sollevò il viso con gli occhi svuotati da quell’imbarazzo che li aveva oscurati pochi istanti prima, lo strinse forte, proprio come era accaduto all’annuncio dell’arrivo di un nipotino. Claudio ora provava lo stesso brivido di quando non sapeva cosa significasse diventare padre e cosa avrebbe dovuto insegnare a quel bambino.

 Si era rifugiato nel lavoro e poi nell’azienda di famiglia. Aveva viaggiato tanto, sentiva forte la responsabilità verso Anna, ma nel suo intino aveva lasciato uno spazio per qualcosa di sospeso, ma che non sapeva esattamente cosa fosse e come avrebbe dovuto colmarlo. Anna, lei invece, si era scoperta mamma.

 Gli anni erano passati, era arrivato l’altro figlio, ma solo adesso comprende cosa significhi essere padre, proprio quando si trova a dover sostenere Luca ad affrontare la nuova situazione. Luca con il suo carattere ribelle non vuole accettare la responsabilità di diventare padre. Giulia, come Anna allora, si ritrova a fare la mamma. In Giulia, Claudio, aveva notato gli stessi atteggiamenti e le stesse accortezze, che la moglie un tempo aveva mostrato nei suoi confronti.

Donne apparentemente indifese e loro pronti a dimostrare la forza dei maschi.

Claudio ha la sensazione che tutti questi pensieri lo portino a fluttuare in una dimensione di non tempo. Si sente smarrito e continua a dondolare e ad essere trasportato.

Un eco una voce: “Papà! Papà”

Anche Le Donne Del Sud Portano I Pantaloni

Questo articolo è stato scritto e pubblicato da Maria Carmen Brandi.

«Quasi tutti i giorni mi capita di percorrere questa strada. Mi devo distrarre e pensare ad altro, far finta che qui non ci sia stato mai niente, che da sempre i rovi abbiano padroneggiato in questo luogo! E’, però più forte di me! Non posso ignorare che proprio qui tutto ha avuto inizio!

La mente poi non posso controllarla! Ora che sono passati tanti anni e che sono avanti con l’età, i ricordi prendono il sopravvento!»

Come in un album di fotografie vedo mio marito, che mi aspetta davanti ai cancelli dello stabilimento, lui con una certa riverenza e come se dovesse rispettare una chissà quale sacralità, si mette in disparte in penombra, aspetta che finisca il lavoro di una lunga giornata estenuante.

Mi viene a prendere, non vuole che vada da sola di notte, al paese parlano, mi dice.

In realtà a quei tempi, questo che ora è un ammasso di macerie, dove la natura ha preso, per fortuna, il sopravvento come se volesse nascondere la vergogna con la sua selvaggia bellezza, era considerato un tempio, non uno qualsiasi, ma quello della fortuna.

La fortuna di un piccolo paesino del Sud.

Ritornano i ricordi: è una sera come tante altre, l’estate è finita, le giornate sono più corte, io e mio marito siamo a cena.

La televisione è accesa:

“Buonasera signori e signore, tra le prime notizie che vi proponiamo questa sera, vi è quella della manifestazione a Milano, in piazza Duomo, del movimento femminista. Numerose donne hanno sfilato per le vie di Milano con striscioni e cartelloni le cui scritte gridano ai loro diritti, alla parità di opportunità con gli uomini nel lavoro, nella famiglia e nella società.”

La tavola è ben apparecchiata, sempre in ordine: i piatti, i bicchieri, il vino, l’acqua e la minestra. C’è del formaggio e del salame fatti in casa da mia madre.

Aspetto un bambino, finalmente dopo mesi di attesa sono rimasta incinta, tutti in famiglia ne hanno esultato con entusiasmo, soprattutto mia suocera, che non ci sperava più.

Mi chiamo Filomena, ho 23 anni, sono la terza di tredici figli e la prima delle femmine. Sin da adolescente ho aiutato mamma a tirare su i miei fratelli, a volte non so se considerarli tali o dei figli miei.

Sono crescita in una grande casa, si trova proprio all’inizio del paese, da lì si vede tutto il golfo.

Mio padre è impiegato alle poste, è un “guarda fili”, tutti in paese poi, lo hanno soprannominato così. Svolge il suo lavoro, però in città, trascorre tutta la settimana fuori, torna il sabato e riparte la domenica.

Chissà perché, dopo questi rientri, trascorrono delle settimane e mia madre poi, è di nuovo con il pancione.

Mi piaceva studiare da bambina, ma il lavoro a casa mi costringeva a continue assenze e purtroppo non ho potuto dedicare molto tempo allo studio. Avrei voluto fare l’insegnante.

Mamma ci teneva che imparassi un mestiere, mi diceva:

«Impara l’arte e mettila da parte!»

Così mi ha mandata a scuola di cucito e rammendo. Ho imparato bene il lavoro di sarta, a me però, piace di più far rivivere vecchi vestiti, riparando buchi e sfilacciature delle trame delle stoffe.

La casa in cui abito con mio marito, non è molto grande, è un regalo di mio suocero, ne ho molta cura e la sento mia da sempre.

Alle pareti della piccola sala da pranzo ho appeso delle fotografie della mia famiglia, in una sono con mamma, papà e alcuni dei miei fratelli, lì siamo ancora in sei.

Non ricordo chi l’abbia scattata, questa foto ci ritrae al mare. Papà teneva a conservare questi momenti, non accadeva spesso che fossimo tutti insieme.

Trascorrevamo le vacanze nel nostro stesso paese, che ha anche delle località sulla costa. I miei genitori affittavano una casa vicino ad una spiaggia, comoda per noi, era raccolta e mamma poteva controllarci tutti.

Il proprietario è un bel signore corpulento, occhi azzurri, capelli biondi e dei baffi dello stesso colore, non sapevo dargli un’età precisa, mi era molto simpatico, la cosa sembrava reciproca.

Al ritorno dal mare papà si fermava spesso a parlare con lui, raccontava che aveva vissuto in Venezuela, che ancora viaggiava e aveva degli interessi lì e poi c’erano ancora i suoi figli che gestivano un ristorante con le loro famiglie a Caracas, uno di loro, ancora scapolo, sarebbe dovuto tornare da lì a poco.

Mi piaceva ascoltare questi racconti, immaginavo la nave attraversare l’oceano, l’arrivo nel nuovo continente, dove i paesani americani aspettavano le notizie dei parenti rimasti in Italia.

Sapevo che quando qualcuno di loro ritornava nel luogo di origine era sempre una grande festa! Tutti si mobilitavano e si riunivano ora a casa di uno ora a casa di un altro.

Quando papà si fermava a parlare con questo signore, notavo ogni tanto che si affacciava, all’uscio della sua casa, una donna, portava sempre un foulard, che le copriva la testa. Lei non usciva mai, questa cosa mi incuriosiva.

Non sapevo ancora che questi sarebbero diventati i miei suoceri, infatti sposerò qualche tempo dopo l’ultimo figlio di questo signore, lo scapolo.

Concluse le vacanze si tornava in paese e si ricominciava con le solite attività.

Gli anni sono passati, di fratelli nel frattempo ne sono nati altri, ora tutti cresciuti, buona parte sposati.

Pensare a questa foto, oggi mi ha riportato per un attimo nel passato, continuo a sfogliare i ricorsi.

 Il conduttore del telegiornale continua con le notizie sulla politica nazionale e le reazioni al movimento femminista che in questi ultimi anni 60’ è molto attivo.

Mio marito è intento a concludere la cena, non sembra troppo interessato alle notizie, sta pensando alla sveglia dell’indomani mattina, suonerà alle quattro, dovrà andare a ritirare le reti e poi, concluso con il mare inizierà nella tarda mattinata un breve lavoro come imbianchino e sarà impegnato tutto il giorno successivo.

Mi rivedo accarezzarmi il pancione, manca poco al parto, sorrido, penso che ora tocca a me. Ho vito tante volte mia madre con la stessa mia espressione e non sono troppo preoccupata, perché mi sono familiari questi momenti.

Trascorre del tempo, nasce una bambina, mi rimetto presto in piedi, mio marito nel frattempo ha continuato a svolgere l’attività della pesca e quella saltuaria da imbianchino, ma i soldi sono sempre pochi, affrontare tutte le spese sta diventando un grande problema e mi sento impotente.

 Decido di confidarmi con mia madre.

«Mamma, mio marito è molto buono attento con me, mi aiuta tanto in casa con la bambina, ma voglio aiutarlo, mi devo dare da fare e contribuire con uno stipendio. La bambina ha quasi un anno e tra un po’ non allatterò più, voglio andare all’ufficio di collocamento, ho sentito che qui in fabbrica, quella che avevano chiuso! Ti ricordi? Ora ha riaperto, cercano personale».

«Sono contenta della tua decisione, mi sono accorta che da un po’ di tempo sei preoccupata e ti vedo in affanno, ti accompagno volentieri dal “collocatore”, ci darà sicuramente qualche consiglio su come preparare la lettera di presentazione. Avremo però, un problema da risolvere: tuo padre, lo sai che non è d’accordo che voi ragazze andiate a lavorare e che se avete deciso di sposarvi, deve badare a voi vostro marito, proprio come ha fatto lui da sempre con me. Dice! Altrimenti, pensa che sarebbe stato meglio che foste rimaste a casa!»

«Papà ora non ha diritti su di me! Sono sposata! Magari potrebbe dire qualcosa mio marito, ma sono determinata, voglio lavorare e rendermi anche indipendente! Avevo in mente queste idee da diverso tempo, poi ne ho avuto conferma in questi giorni. Al telegiornale non fanno altro che parlare delle femministe e dei diritti delle donne. Ma riflettevo! Queste donne del Nord, non sanno che noi qui al Sud ci comportiamo come gli uomini da sempre! Tu ne sei l’esempio, hai condotto la nostra famiglia proprio come un uomo, perché papà non era mai in casa. Ti sei data da fare! È vero non hai un lavoro che ti dia uno stipendio, ma vendi i prodotti che fai in casa. Ti sei improvvisata ristoratrice, quando gli operai che stavano costruendo la strada, che passa sotto casa, ti hanno chiesto di preparare un piatto caldo per loro, in cambio di pochi spiccioli. Io voglio seguire il tuo esempio!»

Dopo qualche giorno, nonostante mio padre si fosse opposto seriamente alla mia decisione, io e mia madre andiamo all’ufficio di collocamento.

Il “Collocatore” ci accoglie nel suo ufficio e mi incoraggia a scrivere la lettera di presentazione, mi dà le indicazioni per consegnarla alla portineria della novella fabbrica.

Sono soddisfatta della mia decisione, perché sento che la lettera verrà accolta, e ne sono ancora più convinta, dopo aver ascoltato la storia dello stabilimento, raccontata dall’uomo.

Un industriale laniero del Nord Italia, il Conte, lo chiamano così in paese, perché è un vero nobile, seguendo la tradizione della sua famiglia,  che sin dagli anni ’50 si era dedicata al settore tessile, ha deciso di trasferire i propri interessi nel nostro sperduto paesino del Sud, spinto dai contributi statali, offerti dalla famosa Cassa del Mezzogiorno.

Avevo già sentito parlare di questa “Cassa” in famiglia, papà aveva la tessera della DC e così ogni tanto discuteva di politica con mamma.

Questo Conte, continua a raccontare l’impiegato dell’Ufficio di Collocamento, è un vero benefattore, perché quando il settore laniero è entrato in crisi, per continuare a dare un’opportunità all’economia del nostro piccolo centro, ha ceduto lo stabilimento ad un altro industriale, che fabbrica vestiti da uomo e ha sentito dire che sono arrivate molte commesse, c’è tanto lavoro e ce ne sarà nel futuro.

Si vocifera, poi in paese che dei signori eleganti e distinti, impiegati della fabbrica, in questi giorni passino per le case, per cercare giovani donne che sappiano cucire, stirare, scrivere e fare di conto, promettendo uno stipendio fisso al mese: il salario!

Mio marito non si oppone alla mia decisione, anzi mi sostiene, dicendo che se fosse stato necessario, avrebbe badato alla bambina insieme alla mamma. Mia suocera!

Mi tranquillizza, perché non voglio lasciare la mia piccola, ma del resto sono abituata anche a questo, quante volte mia madre lasciava i miei fratelli neonati a me o alla balia di turno, per lavorare.

Lei fa tutto in casa dal pane ai dolci, la pasta, cura gli animali da cortile, ne abbiamo tanti, questi servono al nostro sostentamento. Mamma non compra niente, solo il mangime per le bestie e la farina.

La bambina sta crescendo bene, quando sono in fabbrica sta con il padre e i nonni. È serena.

Ho iniziato a lavorare, anche se è faticoso. Sto molte ore in piedi, ma sopporto il sacrificio. Con il primo stipendio ho comprato dei vestitini per la mia piccola e mio marito ha dei progetti per la casa, vorrebbe ricavare due stanze in più. Ha detto, per un altro figlio eventualmente.

Ora è più sereno perché si dedica soltanto alla pesca e alla figlia, se poi arriva qualche ingaggio per biancheggiare un appartamento lo accetta, ma senza troppo affanno, ora io porto (lo stipendio) i pantaloni a casa e ne sono felice.

Adoro il mio lavoro, sono addetta alla fase finale di lavorazione e confezionamento dei capi di abbigliamento, spesso mi prolungo oltre l’orario per gli straordinari, sono pagati bene e ci servono dei soldi in più. La bambina ha ormai tre anni e sto aspettando un altro figlio. Ho tante amiche con le quali ho un buon rapporto, spesso qualcuna di loro si ferma a mangiare con me a pausa pranzo, non abito molto lontano dalla fabbrica.

Accarezzo questi ricordi, perché è stato un periodo molto felice per me e per la mia famiglia e anche per tutto il territorio circostante al mio paese.

La fabbrica ha rappresentato una speranza anche per i paesi vicini per molti anni.

Purtroppo, proprio come una sorta di eutanasia, così si dice quando sai che è giunta la fine, ma non vuoi soffrire e chiedi che ti somministrino un medicinale che ti addormenti dolcemente, così alla fabbrica è accaduta la stessa cosa.

I fondi della Cassa del mezzogiorno sono finiti, le commesse si sono sempre più esaurite, e tutti i sogni degli operai si sono infranti, ma senza che ne fossero pienamente coscienti.

Dopo alcuni anni di cassaintegrazione, molti colleghi di lavoro si sono licenziati e hanno avuto una buona liquidazione. Ci hanno provato anche con me, mi hanno offerto cifre esorbitanti pur di ottenere il mio licenziamento.

Ma gli ho gridato in faccia:

«Come posso vendere i miei sogni, le mie speranze, la mia felicità e i miei ricordi di giovane donna, che si è emancipata, grazie al coraggio e all’ottimismo di uomini che hanno creduto in noi donne del Sud. Ci hanno dato un sogno e voi oggi volete comprarlo con gli interessi. No! Resto aggrappata gelosamente alla mia vita passata!»

Ora sono in pensione e ancora passo e ripasso davanti a questo posto, osservo i cespugli e le sterpi che avvolgono gelosamente le mura decadenti della fabbrica che rappresentano miei sogni passati, i rovi invece sono le mie braccia che li coprono con avidità.

Le Foglie D’Autunno

Questo articolo è stato scritto e pubblicato da Maria Carmen Brandi.

Amica mia…Amica mia….
Clara continua a guardare la carta da lettere, immagina che il foglio bianco con decorazioni floreali, possa comporsi delle parole giuste quelle adatte per rivolgersi a Beatrice. Pensa che scrivere una lettera su un foglio di carta possa sembrare, oggi un po’ fuori moda, perché è più comodo scrivere una e-mail che usare della carta. Lei però vuole fare un piccolo omaggio a Beatrice.
La cura della scrittura, l’inchiostro e la carta sono il simbolo di qualcosa di antico e di vero come la loro amicizia.
Clara guarda fuori dalla finestra, le foglie degli alberi hanno coperto le strade di Roma, l’autunno con insistenza si impone alle temperature troppo elevate per il periodo. Scherzi del clima …
Gli occhi tornano sul foglio, resta bianco.
Clara ricorda che all’inizio dell’autunno lei e Beatrice facevano progetti per l’inverno, cercavano la palestra giusta, il corso di ballo, controllavano i programmi dei teatri della città. …..

Da quando si conoscevano avevano scoperto di avere gli stessi interessi.
Si erano conosciute proprio in un autunno di qualche anno prima.
Un giorno arriva in ufficio lascia la borsa sulla scrivania, accende il computer, uno sguardo all’agenda, ma con la coda dell’occhio nota nella stanza difronte una macchia rossa sfuocata che va avanti e indietro dalla scrivania alla sedia di cortesia. Clara ne resta incuriosita guarda meglio e la macchia rossa prende le forme di un tailleur rosso, sotto delle scarpe eleganti col tacco alto, una silhouette sottile, è una donna che tiene in mano delle carte che sfoglia velocemente, poi si sventola impaziente.
“Chi sarà”. Si chiede tra sé.
Il tailleur rosso si incammina verso la sua stanza:
“Buongiorno sono Beatrice”, si gira e con un gesto indica l’altra stanza:
“Sono stata assegnata in questo ufficio, è il primo giorno”.
Clara prova subito una grande simpatia per questa donna così fiera e ne è felice, perché anche lei è nuova dell’ambiente.
Non riesce a capire perché, ma sente che con Beatrice può nascere una bella amicizia.
Clara ricorda che quella mattina è trascorsa velocemente.
Beatrice viene inghiottita dai convenevoli di ben venuto e dalle mille indicazioni del responsabile dell’ufficio.
Riesce ad incontrarla solo nel tardo pomeriggio la vede col suo sorriso e con un’energia che contagiava chiunque la incontrasse, questo la colpiva, perché la sua sensibilità le faceva capire che si trovava difronte ad una persona generosa e speciale.
Speciale…! Speciale…!
Clara pensa che avrebbe potuto iniziare la sua lettera proprio così:
Amica mia, Amica speciale…

Ma ancora una volta la penna si ferma…. Gli occhi si posano sulle sfumature del rosa dei petali dei fiori che decorano la carta.
Le viene in mente quando incontrava Beatrice dopo il lavoro e passeggiavano al tramonto per le strade del centro di Roma, l’azzurro del celo era sfumato di un colore rosa che diventava arancione in prossimità dei raggi del sole al tramonto.

La loro amicizia era iniziata così tanti racconti della loro vita e degli amori.
Quando Beatrice le raccontava come fosse riuscita dal niente ad arrivare a lavorare per una grande compagnia aerea, Clara ne restava affascinata.
Beatrice era stata sposata e aveva avuto tre figlie.
Quando parlava di loro si inorgogliva, diceva che erano molto diverse tra loro, ma riconosceva in ognuna un lato del suo carattere: determinata e testarda, timida e amorevole, sfrontata e frontale.
“Le mie ragazze”, le chiamava così:
“Sono proprio come me.
Le diceva.

Si fermavano a guardare qualche vetrina. Discutere delle nuove tendenze della moda, era un argomento che le distraeva dagli aneddoti di vita personale.
Questo argomento in realtà era solo il pretesto per parlare di cibi salutari e di come impostare un piano alimentare sano ed equilibrato.
Potevano stare delle ore così, sembrava che fossero le allenatrici di squadre di broccoli, di avocado e di spezie orientali dalle proprietà magiche che si contendevano il primato della salvezza dell’umanità.

E allora! Clara pensa, cosa non abbia funzionato? Tante discussioni sui cibi sani, sulla palestra, il corso di ballo, il movimento, i muscoli definiti.
Cosa non ha funzionato?
Una stretta al cuore, sente il suono di una sirena dalla strada che si confonde nella sua memoria con quello dello squillo del telefonino, è Beatrice.

Pronto Clara. “Ciaooo come stai? Come mai mi chiami a quest’ora”?
Ti volevo dire sai quella ragazza che abbiamo conosciuto alla scuola di ballo aspetta un bambino.
Clara ascolta in silenzio è perplessa,
“Poi, sai ho fatto quelle analisi e …”
Le sue parole risuonano nella mente di Clara …un tutt’uno con il suono della sirena.

Riguarda fuori, le foglie continuano a cadere, per strada una signora ben vestita, la borsetta stretta al fianco destro, il traffico di Roma, il via vai della gente.

Clara stringe le braccia intorno ai fianchi, un leggero brivido che non sa attribuire al caldo o al fresco dell’imbrunire.
Il foglio lì sulla scrivania, la penna e solo quattro parole:

Amica mia…Amica speciale…

La Mia Amica Ninfa

Questo articolo è stato scritto e pubblicato da Maria Carmen Brandi.

Canope, la ninfa dell’antica quercia, che le fa da dimora ormai da tempi antichissimi, osserva Maia, sua dolce amica che è assorta nei suoi pensieri.

Segue la giovane con un’occhiata veloce, poi chiude gli occhi, vuole solo ascoltare.

È l’alba, Maia si avvicina alla riva del piccolo lago che bagna il bosco. I neonati raggi di sole filtrano tra i rami degli alberi. La notte è trascorsa tranquilla, gli animali notturni questa volta hanno rispettato i suoi sogni, soprattutto i gufi, che con il loro verso cupo e continuo solitamente accompagnano il suo sonno.

La fanciulla tira un profondo respiro, tutt’intorno l’aria ha l’odore dell’umidità della notte, porta lo sguardo sulla superfice dell’acqua, che riflette la luce del giorno, brilla come se fosse cosparsa di una miriade di diamanti.

<< Presto sarà tutto asciutto, è un’estate molto calda>>! Pensa tra sé.

Mentre continua a guardare il lago, porta un braccio al grosso ramo di quercia alla quale è legata da un affetto profondo. Trascorre molta parte del giorno e della notte in sua compagnia, qui nel bosco ce ne sono tante, ma questa è speciale: è la sua amica del cuore.

Con l’altra mano si tiene le vesti leggere che coprono appena il suo corpo esile, ma perfetto, la ninfa immerge i piedi nell’acqua e mentre ne gode, sbircia tra gli alberi:

<<Questa mattina c’è molto silenzio nel bosco…. sembra che tutti ancora riposino>>,

guarda, poi in lontananza, tra i cespugli acquatici scorge una macchia di colore rosa intenso e intorno un alone di un verde brillante: è una bellissima ninfea.

I suoi occhi si illuminano, sapeva di poter dirigere la forza vitale della natura, ma non pensava di poter arrivare a creare tanta bellezza, timidamente ne è compiaciuta.

Quando le accade di ammirare tali meraviglie, vorrebbe condividere la sua gioia con altre compagne ninfe, ma il timore di apparire sciocca o al contrario presuntuosa la trattiene.

 Così mostra il grosso fiore ad uno scoiattolo, che intanto si avvicina allo specchio d’acqua per bere. L’animale, però non si mostra troppo interessato.

La ninfea, nel frattempo si è schiusa, mostra i suoi grossi petali che spiccano nel verde intorno, anche l’acqua appare dello stesso colore: rosa con sfumature verdi.

Maia continua a tenere i piedi nelle acque del lago e fissa il fiore con avidità, vorrebbe tuffarsi nel suo colore e fondersi con la sua grande corolla.

Ama stare da sola e passare in rassegna le trasformazioni delle piante che abitano il bosco, il suo compito è quello di animare e dirigere l’energia creativa della vegetazione che le era stata assegnata da Zeus.

            Lo spettacolo al quale sta assistendo le trasmette un misto di allegria, di spensieratezza e un pizzico di euforia e com’ è nella sua natura improvvisa una danza che pian piano diventa frenetica.

Le sue braccia seguono le note di una musica, proveniente da un angolo nascosto del boschetto, è un giovane fauno, Geri, che appena si è accorto della danza della dea, si è messo all’opera con il suo flauto.

La dea si muove sinuosa, elegante, le gambe flessuose si intravedono sotto le sfumature delle vesti trasparenti che volteggiano leggere nell’aria.

Il suono è dolce, ma intenso e avvolge completamente la fanciulla, ad ogni suo movimento gli alberi intorno sembrano ballare con lei e le fronde diventano sempre più verdi, una strana energia avvolge tutto, gli uccelli si muovono in volo e gli altri animali danno inizio alle loro attività quotidiane.

Questo è il segno che il sole, ormai padroneggia il cielo azzurro estivo.

Maia sfinita si sdraia sotto la quercia sua amica, mette in ordine le vesti, non riesce a non pensare alla ninfea che primeggia fra tutte le piante questa mattina. Cerca di ricordare i sogni della notte appena trascorsa, sa che è proprio durante il sonno, esprimendo dei desideri, si libera la sua forza vitale.

<<Non riesco a capire come ho fatto a far emergere la ninfea dal fondo del lago e spingerla a fiorire così bella.>> parla tre sé <<Ho sempre tanti dubbi sulle mie possibilità, mi sento spesso malinconica e triste. Sento intorno a me l’energia degli animali e degli alberi del bosco, ne dovrei essere soddisfatta, in fondo sono consapevole che il loro aspetto rigoglioso lo devono a me, ma non so ancora usare bene i miei poteri, mi devo impegnare di più. Le altre ninfe sembrano sempre più brave di me, i loro boschi sono più ricchi.>>

Le sue parole vibrano nell’aria, le sillabe si susseguono una dopo l’altra a guisa di note, così come una sorta di melodia, ma la sua espressione è sempre più sfiduciata e spenta.

Geri viene attratto da questo strano canto che somiglia quasi ad un lamento. Di solito vive ai margini del bosco, ma questa volta si dirige verso il lago e giunge nei pressi della quercia, vorrebbe intervenire e rassicurare la bella Maia.

Prova a parlare, ma si nasconde dietro al tronco dell’albero, non vuole spaventarla. Sa di non avere un bell’aspetto, si, il suo viso è quello di un dio, ma il corpo, è davvero orribile e bestiale. Intona un canto e cerca così di alleviare l’animo della dea:

<<Bellissima, devi sapere che la notte io veglio sul bosco e tutto si anima, non solo degli animali tuoi amici, anche dei tuoi sogni e dei tuoi desideri. Questa notte ho assistito ad un sogno in particolare ed era così: in un mondo a forma di cuore c’eri tu, come sempre bellissima, piena di una luce che somigliava a quella delle dee dell’Olimpo. Eri sospesa da terra e il tuo sguardo ha avvolto tutte le piante che all’improvviso si sono animate. Hai iniziato a danzare e loro con te, sono, poi accorsi tutti gli animali e anche questi con voi erano trasportati da una musica misteriosa, non era il suono del mio flauto questa volta. Ho osservato attentamente e in quel mondo di cuori c’era anche un uomo bellissimo. Penso sia stato un eroe, perché era possente e forte, aveva uno scudo e un arco, ma ad un certo punto si è messo a suonare la lira e da essa si è levata una melodia soave. Per un momento ho provato tanta invidia, dal mio flauto non esce una tale musica. Però il mio cuore si è riempito quando mi sono accorto che il tuo volto alla sua vista è diventato ancora più bello. Ho avuto l’impressione che tu lo stessi aspettando, in realtà come ogni notte, ma in quella scorsa la vostra unione è stata così intensa e appassionata che è nata una ninfea ed è proprio quella lì nel lago.>>

Maia ascolta attentamente le parole di Geri, all’inizio si nasconde il viso, perché non vuole che lui veda il rossore che ha preso il posto del color rosa delle gote, poi si costringe alla normalità e prova ad immaginare l’uomo che il fauno ha descritto.

Porta le mani sul cuore, si contrae tutta, chiude forte gli occhi e pensa che l’eroe di cui parla il fauno possa esistere, lei ne è sicura ed è a lui che anela, lo sta aspettando con tanta inquietudine e sente che presto arriverà.

Geri termina il suo canto, Maia si alza, cammina tra i cespugli vuole incontrarlo, lo chiama, ha sempre saputo che lui era lì e che si nascondeva alla sua vista, vorrebbe ringraziarlo per tutto quello che ha fatto fino a quel momento e dirgli che lei apprezzava il suo operato. Il suono del suo flauto spesso accompagnava le sue danze, senza di lui il bosco non sarebbe tale. La danza nutre la linfa vitale degli alberi.

Geri continua a nascondersi, Maia non vuole suscitare il suo risentimento così gli dice:

<<Geri, non voglio insistere e rispetto la tua volontà. Caro, so quanto tieni al bosco e a me, i miei sonni sono tranquilli proprio grazie alla tua presenza, non temere la mia vista, sai che noi ninfe possediamo dei poteri, potrei aiutarti se solo tu lo volessi>>!

Geri, però non risponde, preferisce allontanarsi e aspettare che il giorno giunga alla fine.

L’albero di quercia si anima, la ninfa Canope, che lo abita ha deciso di parlare e aiutare a riflettere Maia sulle sue reali possibilità, voleva farlo da tanto tempo, ora è il momento giusto, l’intervento di Geri aveva svelato degli aspetti della vita dell’amica e ne vuole discutere con lei.

<<Maia hai ascoltato il racconto di Geri?>>

<<Si!>>

<<Bene, cara amica ora tendi le orecchie a ciò che sto per dire.>>

<<Sai che mi fido di te e seguo i tuoi consigli, quando mi parli dopo i tuoi lunghi silenzi.>>

<<Nel racconto di Geri c’è un momento descritto che mi ha colpita e spero che abbia avuto lo stesso effetto anche su di te. Il mondo di cui ha parlato il fauno è un cuore e lì tu non camminavi, ma volavi e danzavi al suono di una lira. Chi suonava era un uomo. Non capisci che la tua forza è nel cuore! Dove non cammini e dove non usi la mente, ma ti lasci andare, o meglio lasci andare la tua forza vitale, che solo nell’incoscienza del sogno usi con sicurezza. L’altro argomento è l’amore per quell’uomo, che guarda caso suona. Allora! Cosa ti fa capire tutto questo? Pensi forse che quell’uomo non possa essere Geri! Mi spiego meglio. Geri con il tuo aiuto potrebbe trasformarsi in uomo e abbandonare l’aspetto animalesco. Vi osservo da tanto tempo, non so più da quando! È semplice! Siete innamorati, ma vi nascondete, tu dietro le tue insicurezze e lui è timido perché sa di non essere pienamente uomo. Ora se soltanto la tua energia vitale lo sfiorerà, diventerà quell’eroe che tu aspetti da sempre. Cara amica, è finito il tempo di vagare infelice nel bosco, pensando di essere un passo in dietro alle altre ninfe. Vai lui aspetta solo te!>>

Maia non riesce a proferire parola, non aspettava altro, l’incoraggiamento dell’amica la rincuora. Il volto della dea si illumina, dà inizio ad una danza, chiude gli occhi e si lascia trasportare da un leggero Scirocco caldo della sera pieno del profumo dei fiori della notte.

Il sole è tramontato, ma la scena nel bosco è la stessa della mattina. La ninfa, danzando vaga tra gli alberi e i cespugli che al suo arrivo si destano, il richiamo è forte, Geri non resiste e comincia a suonare il suo flauto, la forza vitale che si leva dalla danza di Maia lo avvolge e il desiderio di baciarla si fa sempre più forte. Il suo viso diventa sempre più bello, il torace definito, le gambe muscolose e possenti. Il fauno si osserva incredulo. Ha capito che Maia ricambia finalmente il suo sentimento e conosce bene la forza del suo amore. Una strana magia avvolge il bosco, tutti i suoi abitanti sono in festa e questa volta non è un sogno, ma una bellissima realtà.

Canope, la ninfa della vecchia quercia, felice chiude gli occhi, ora la sua amica ha imparato, sa che entrambe possono sempre contare una sull’altra. Le ninfe tra i loro poteri possiedono quello di conoscere il futuro e la dea vede che i due giovani saranno incoronati da Zeus.

La vita del bosco sarà animata da mille avventure…

La Nostra Amicizia

Questo articolo è stato scritto e pubblicato da Maria Carmen Brandi.

Pasquale fissa la luce del neon, l’odore acre del disinfettante per pavimenti è ormai familiare, questa è la terza infusione.

È sdraiato sulla poltrona nella sala dell’ospedale, dove stazionano i malati oncologici per ricevere la terapia. Arriva l’infermiera, che con la solita delicatezza, sistema la flebo, e con voce sottile gli raccomanda di restare immobile per quanto gli fosse possibile: “Attento Pasquale, l’ago non deve muoversi, abbia pazienza!”

Con occhi vivaci dà uno sguardo alla bottiglia che riflette la luce del neon, conta le gocce del medicinale che scorrono lentamente.

“Che ore sono?”, chiede a Piera, seduta accanto a lui.

“Abbiamo appena iniziato, manca almeno un’ora prima che finisca la flebo”.

Pasquale, rassegnato, si osserva le mani sul dorso e sul palmo. Sembra voler dire a se stesso: quante cose ho fatto e quante ne dovrò fare.

Pensa che l’estate è vicina e che aveva progettato di trascorrere le vacanze al mare, come ogni anno.

Vuole tornare al paese, riposare, ritrovare i vecchi amici del bar, bere e parlare di politica o delle scorribande da ragazzi.

Conosce Piera dagli anni dell’università e non si erano più separati. Hanno studiato alla facoltà di lettere. I loro gomiti si erano sfiorati mentre stavano in fila nella mensa universitaria. Un momento di pausa tra una lezione e l’altra, uno scambio di battute, un primo appuntamento in biblioteca. Così era iniziato tutto in una giornata di autunno.

Le scalinate della facoltà erano il luogo dove trascorrevano molti pomeriggi a discutere, anche in modo animato, del governo dell’Italia, di questo o quel personaggio politico.

Si scambiavano idee e in un attimo progettavano le loro vite future. Si trovavano così uno difronte all’altra, il sole caldo autunnale scaldava i loro visi e dava energia agli sguardi e alle occhiate timide.

Avevano tentato di intraprendere una relazione sentimentale, ma al primo approccio erano scoppiati in una risata. Non si riconoscevano come una coppia, ma uno strano sentimento simile ad un affetto profondo li teneva insieme.

Da quel momento avevano condiviso molti momenti della vita.

Lui ha deciso, dopo la laurea di insegnare al Liceo. Aveva conosciuto tante donne, ma si ritrovava poi a scegliere la vita da single.

Lei ha iniziato a scrivere articoli di politica per riviste specializzate, nessuna relazione importante, aveva preferito viaggiare e non legarsi a nessun uomo.

Pasquale aveva scoperto di essere ammalato di carcinoma al duodeno dieci anni prima. Era stato operato e da allora il tumore non si era più manifestato. Aveva vissuto la vita di quegli anni nell’illusione che quella sorta di demone, che per un momento si era impossessato del suo corpo, fosse stato esorcizzato dalle tecniche alchemiche dei medici. Così all’improvviso una febbre, all’apparenza insignificante, era in realtà il segno del ritorno del demone.

Dà ancora un’occhiata alla sala, le postazioni sono segnate da separé, un continuo via vai anima l’ambiente.

Piera per ingannare l’attesa legge un libro, la copertina riporta delle scene di guerra e lo scoppio di bombe, sembra concentrata sulla lettura. Pasquale la guarda intenerito, sa che invece sta pensando a lui e non vuole mostrare la sua preoccupazione. È sempre premurosa da quando l’ha chiamata al telefono e le ha detto che aveva fatto delle analisi e visto il medico che gli aveva comunicato il responso: “signor De Luca, purtroppo le notizie non sono buone”. Così appone le lastre della TAC su un pannello luminoso e inizia a spiegare. Le parole del medico si perdono nel piccolo studio e nella mente di Pasquale risuona soltanto la frase: “è ritornato”.

Piera vive a Milano è una giornalista freelance, è subito corsa a Roma, ha raggiunto Pasquale. Un abbraccio, un sorriso e la sua dolcezza hanno riempito il momento in cui si sono incontrati.

Lei lo ha rassicurato solo con gesti e pochissime parole, così è stato sempre tra loro.

Nello stesso periodo Piera era stata contattata da un giornale romano per indagare su un caso di corruzione negli ambienti politici della capitale, aveva deciso di trasferirsi lì. Pretesto per mascherare la sua vera intenzione di stare vicino a lui.

Pasquale ripensa all’estate, alla vacanza e a Piera. Fissa ancora la luce del neon che diventa un tutt’uno con quella del sole che penetra dai finestroni della sala, il suo sguardo è rapito dal calore dei raggi e la mente ritorna al paese. È con Piera: sono seduti nel patio della sua casa al mare, guardano l’orizzonte, i loro pensieri si perdono e si confondono con un brano di Vivaldi “Gloria”, non erano particolarmente religiosi, ma questa melodia li avvicinava a qualcosa che assomigliava alla spiritualità e che li univa profondamente. Così come avveniva sempre i loro sguardi si incrociavano e sembrava che le loro anime si fondessero.

Piera si lascia riscaldare dal sole, è nel patio, anche se è ottobre sembra estate: è sola guarda tutt’intorno, si rassicura che le finestre siano ben chiuse, chiama Antonio il ragazzo che si occupa della casa da quando Pasquale si è ammalato, per consegnargli le chiavi, gli raccomanda di fare un giro di controllo che tutto sia a posto proprio come voleva Pasquale. Intanto lei entra in casa, passeggia per le stanze, arriva nello studio, si siede alla grande scrivania, dove lui amava dedicarsi ai suoi studi e alle letture, ancora libri sparsi qua e là: Pirandello, Verga e Pasolini. In un angolo nota un quaderno con una copertina con un paesaggio marino, lo apre, legge il suo nome “Piera” e un sottotitolo “La nostra amicizia”.

Piera ha come l’impressione che da un angolo della casa risuoni come un’eco la loro melodia: “Gloria, gloria, gloria in excelsis Deo”.  Piera sorride, le ritornano in mente i pomeriggi all’università: loro due ragazzi, gli occhi limpidi di entusiasmo e di passione, le mani che si sfiorano e solo ora comprende il rapporto con Pasquale: si erano amati tanto.