Non C’è Niente Da Sapere

Questo articolo è stato scritto e pubblicato da Giovanni Attanasio.

È impossibile rifare la realtà.
Devi prendere le cose come vengono.
Tenere duro e prendere le cose come vengono.

(Everyman P. Roth)

La levità delle anime che vagano senza spessore visibile, la pesantezza dei corpi che sopportano quell’immaterialità. Come il peso dietro lo sterno, come una massa opprimente, che somiglia a un infarto,
ma che infarto non è, e Alberto lo sa benissimo, e che lo accompagna da giorni, settimane, forse mesi, forse da quando l’ha incontrata, forse da sempre. -Sto perdendo la percezione di me. Come se gli eventi, specie quelli di un qualche significato, devastante…? È probabile, modificassero quello che sentiamo di noi stessi. Ma la nostra proiezione verso gli altri è anche quello che prospetticamente vorremmo che fosse visto di noi. Ma l’immagine che irradio non è forte, non è caratterizzante. È possibile che io sia addirittura agenesico, ed ecco, è possibile che non venga visto. E ricordo solo due cose di lei: ‘che meraviglia ’ diceva quando facevamo l’amore, specie i primi tempi, forse solo i primi tempi. E ‘ potenzia ’ diceva ‘potenzia quello che hai’ ciò che hai appreso, ciò che ti porti dietro di quello che hai vissuto.
Potenzia ciò che ti è dato, valorizza ciò che hai.’ Il ricordo allo stato alimenta solo dolore e delusione, potenzia solo il disagio dietro lo sterno. I fatti, il ricordo di fatti avvenuti e già passati, il passaggio dei fatti a pura immaginazione, già è possibile, non più permeata dalla riconoscibilità. Rimangono solo i simboli, un libro, un regalo, un oggetto, un telefonino. Uniche reliquie dell’irrealtà del ricordo. Go away. E mi sovviene un dialogo da un racconto, non so più quale: ‘ogni vita mi risulta unica e fragile. È intollerabile che le persone che conosciamo si trasformino in passato.’ ‘la cosa più intollerabile è che si trasformi in passato chi si ricorda come futuro. Ma l’unica soluzione a quel che dite, signore, è che tutto finisca e non rimanga più nulla. ’-Alberto infila il casco integrale salta sulla moto, accelera, non troppo, e non è paura per sé, è per qualche piccolo innocente che può attraversargli innanzi.
Le vie del centro sono illuminate e sfavillanti come solo nel periodo della farsa natalizia, alza gli occhi ad un megaschermo riflettente una pubblicità, una frase per discovery real time: ‘fallite, il fallimento è il vostro impegno nella vita, ma fatelo con eleganza. ’- Lei in quel loro fallire non era stata elegante- pensa Alberto, in quell’ultimo lontanissimo segno di sé: un sms che non apparteneva a quel loro microcosmo speranzoso e disilluso, un messaggio di onestà ma anche brutale. ‘la brutalità è anaffettiva ’ rimugina Alberto, lei gli era parsa tale fin dalla loro prima uscita. Quel messaggino riportava una frase di qualcuno, la ricordava a memoria: -si ricomincia da una giostra… sui seggiolini sollevati nessuno guarda l’altro… un altro giro e ancora un altro… Scopa con qualcuno, aggiunge la sua mente, è riduttivo lo sa, ma il suo pensiero è onesto lineare brutale. Esce di città, fa un’apertura al limite dei giri, il mezzo impenna, Alberto è insensibile al vento gelido che in seconda a cento km all’ora fa percepire al corpo sei gradi in meno: ma quel corpo non gli appartiene, non sente nulla, ancora una volta la percezione è assente. Giunge sotto casa dei genitori citofona, la madre riconosce la voce e gli dice ‘ ti apro amore.’ Li saluta con affetto sforzato, i pensieri altrove. Ascolta il cuore malato del padre, gli misura la pressione: “Centoquaranta-novanta, per te va bene così papà, la cura continua inalterata, gli aggiustamenti di terapia cominciano a dare i primi frutti.” La mamma porta due decaffeinati, anche lui lo aveva voluto come il padre, quell’oppressione dietro lo sterno… al padre non sfugge il suo sentire: “Cosa hai Alberto?” “Papà è come se fossi privo di percezione” “Non è come pensi. È troppo presto per te, ancora non ci arrivi. Non hai ancora la scienza del tuo esistere, la scienza è percezione, tu proietti la tua immagine di realtà, e la realtà è solo dubbio. È ancora troppo presto per te” “Papà ma come parli…”
“Sai quando sei venuto a trovarci l’ultima volta, avevi gli occhi spaventati, irrequieti, come quando eri bambino. Come quelli che ho visto quando mi hai accompagnato fuori la sala operatoria di cardiochirurgia al San Raffaele a Milano tre anni fa, giusto? E sai, a ottant’anni si ha molto tempo, per pensare, per ricordare, per riflettere, e soprattutto per riflettere sulle cose di figli, sul perché di quegli occhi.
Pensare e occuparsi di voi e preoccuparsi di quegli occhi è la nostra ultima memoria, perché poi c’ è il nulla. E vi illudete che noi regrediamo e che fisicamente siete voi a occuparvi di noi genitori. Come se ci fosse un’inversione di ruoli. Tu medico e tuo fratello magistrato: uomini adulti, bravi ragazzi e innegabili sprovveduti.” “Infatti, papà è strano, mi sento sprovveduto, hai ragione. Dopo la separazione, pensavo di essere un’altra persona, di avere altra consistenza. E invece eccomi qua, è stata una sorpresa per me dopo tanto tempo e dolore aprirmi e poi… poi è durato troppo poco, sai quando aspetti una cosa a lungo, poi eccola che arriva e poi tutto è troppo veloce, breve rapido, anche l’attesa che precede il fatto non c’è più, il fatto precipita e allora sembra che ci sia mancato il tempo per fare tutte quelle cose che si volevano fare, il tempo è fuggito ed io non ne ho avuto abbastanza per conoscerla. Lei mi disse una volta ‘niente è più presente di una persona assente’. È proprio così papà. E alla fine mi è sembrata brutale, anaffettiva e non era come io l’avevo osservata all’inizio”. “Alberto, stai dilatando troppo il tuo ricordo e questa dilazione lo rafforza. Questo lascialo fare a noi vecchi che crediamo ancora di vedere quello che non c’è più e inganniamo la nostra esistenza. Vedrai non è possibile pensare che tutto continui com’era se tutto è cambiato. E vedrai anche che un giorno riderai di te per come l’hai presa e per aver commesso un errore, se lo era un errore. E forse ti risulterà insopportabile questo periodo per aver guardato il fatto e pensare di conoscerlo” “Non ti capisco papà, che vuoi dire…” “Alberto, il semplice guardare con troppa attenzione a volte cambia il fatto. È il principio di indeterminazione. Più osservi meno conosci, perché più osservi più interpreti, più interpreti più sei lontano dalla verità, e la realtà, la tua, cambia il fatto. I tuoi occhi spauriti hanno guardato questo tuo rapporto, il fatto, e lo hanno cambiato. Come tu volevi che fosse. E come tu volevi che lei ti vedesse. Ma lei non sentiva come tu credevi. E non è brutale e anaffettiva, è umana. Tu non hai mai avuto comportamenti analoghi? Ricorda, Alberto, ricorda. Quante volte eri tu dall’altra parte. Il punto è: nessuno è colpevole. Nessuno agisce convinto di fare male, è solo che in certi momenti non si può tenere conto degli altri, rimarremmo paralizzati e schiavi dei nostri timori, e quindi non si può pensare ad altro che a noi stessi e al momento, non a quello che viene dopo, né agli altri. E ‘quello che ha fatto lei, è quello che hai fatto tu tante volte, e che farai ancora, ricordalo Alberto.” Si alzò come se avesse avuto dal genitore una rivelazione che lo lasciava esausto. E pensava di essere andato lì solo per prendergli la pressione. Il padre gli carezzò la nuca, lo baciò accompagnandolo alla porta e gli disse con fare conclusivo: “Vedrai, quando saprai ciò che devi sapere, e non c’è niente da sapere, sarai di nuovo te stesso, come sei sempre stato, niente di più niente di meno” “Papà allora vuoi dire che devo dimenticare la vita per vivere…” “Guarda Alberto che vivere fa dimenticare la vita”.

Quella Prima Volta

Questo articolo è stato scritto e pubblicato da Giovanni Attanasio.

Enigma

Questo articolo è stato scritto e pubblicato da Giovanni Attanasio.

Apri gli occhi, come se non li avessi aperti, buio assoluto prima, ancora più nero del nulla ora.  Forse ancora non le hai aperte le palpebre, non discerni, forse dormi. Allora pensi di muovere un braccio, non si muove. Le gambe non le senti. Allora parli, pensi di parlare, ma non odi suoni. Allora urli, ma niente, niente di niente. Come in quegli incubi dove gridare non serve, gridare soprattutto aiuto, mamma e dove non emetti alcuna sillaba, nessun verso, tutto inutile. E allora il tuo delirio si delinea, le futili espressioni sgorgano, le vacue parole fluiscono. Impossibilità, inutilità, immobilità, incapacità e allora dolore, sofferenza, patimento, pianto, scoramento e quindi ridi, gioisci, speri, ti rialzi, euforia, il recupero, l’integrità, l’unicità e di nuovo l’impossibilità, l’incapacità. Hai perso di nuovo. Ci hai provato, ma è tutto vano, come sempre e come sempre perdi. E poi vinci, mi abbatti, mi odi, mi cancelli, ti illudi una volta di più di avercela fatta.
E invece eccomi qui. Hai tentato di distruggermi, ma io sono qui, ti demolisco, quasi ti anniento ma poi ti fornisco la linfa vitale, l’energia che rielegge l’elevarsi, è l’elegia dell’entusiasmo, nessuna aporia, il memento della ripetizione sparisce. Tutto ricomincia. Eterno dilemma della conflittualità. Ed io ti amo, non sopravvivo senza te, tu mi hai creato, tu mi distruggi, io ti fagocito, ti sopraffaggo, vinco, io ti distruggo. Ogni volta come un’epatta la nostra esistenza temporale è variabile ma indissolubile, è prima sconosciuta e poi calcolata minuziosamente. E siamo sempre lì. Ricordi quando abbiamo visto quel film, forse prima tu, poi io, o viceversa, non importa. Sei sobbalzata ad un certo punto, volevi dire qualcosa, poi una frase sulla vita ti ha fatto riflettere, una frase su come ci si butta nella mischia.
Uno diceva: “Sai quando devi dimostrare qualcosa e devi imparare in fretta, molto in fretta?”
e l’altro: “tipo che mi si butta in acqua e devo imparare a nuotare per non affogare?”
“No”, dice l’altro “No, forse non hai capito. Immagina che ti si spinga dal decimo piano e devi imparare a volare”.
Ecco forse tu hai imparato a volare, ma qualcuno ti diceva che eri strana, poi via via sempre meno persone te lo dicevano, sempre meno si interessavano a te.  Fino a che la tua stranezza è diventata normale, e tu forse hai volato, o forse hai finito di volerlo. E hai pensato di parlare alle persone che hanno smesso di interessarti a te, che hanno smesso di parlarti.
Ci hai provato, hai detto loro qualcosa ma le tue parole erano diventate fredde e ormai spaventate dall’oscurità ti sono ritornate in gola.

Un momento raro. La lucidità di intessere. Un filo neuronale traccia la trama. Un ricordo.
Tu ricordi, io ricordo, noi questa volta ricordiamo insieme, e non ci pare possibile.
Ti dissero, ci dissero: -Disturbo bipolare-. Noi mai insieme, eppure inevitabilmente un solo essere.