Anche Le Donne Del Sud Portano I Pantaloni

Questo articolo è stato scritto e pubblicato da Maria Carmen Brandi.

«Quasi tutti i giorni mi capita di percorrere questa strada. Mi devo distrarre e pensare ad altro, far finta che qui non ci sia stato mai niente, che da sempre i rovi abbiano padroneggiato in questo luogo! E’, però più forte di me! Non posso ignorare che proprio qui tutto ha avuto inizio!

La mente poi non posso controllarla! Ora che sono passati tanti anni e che sono avanti con l’età, i ricordi prendono il sopravvento!»

Come in un album di fotografie vedo mio marito, che mi aspetta davanti ai cancelli dello stabilimento, lui con una certa riverenza e come se dovesse rispettare una chissà quale sacralità, si mette in disparte in penombra, aspetta che finisca il lavoro di una lunga giornata estenuante.

Mi viene a prendere, non vuole che vada da sola di notte, al paese parlano, mi dice.

In realtà a quei tempi, questo che ora è un ammasso di macerie, dove la natura ha preso, per fortuna, il sopravvento come se volesse nascondere la vergogna con la sua selvaggia bellezza, era considerato un tempio, non uno qualsiasi, ma quello della fortuna.

La fortuna di un piccolo paesino del Sud.

Ritornano i ricordi: è una sera come tante altre, l’estate è finita, le giornate sono più corte, io e mio marito siamo a cena.

La televisione è accesa:

“Buonasera signori e signore, tra le prime notizie che vi proponiamo questa sera, vi è quella della manifestazione a Milano, in piazza Duomo, del movimento femminista. Numerose donne hanno sfilato per le vie di Milano con striscioni e cartelloni le cui scritte gridano ai loro diritti, alla parità di opportunità con gli uomini nel lavoro, nella famiglia e nella società.”

La tavola è ben apparecchiata, sempre in ordine: i piatti, i bicchieri, il vino, l’acqua e la minestra. C’è del formaggio e del salame fatti in casa da mia madre.

Aspetto un bambino, finalmente dopo mesi di attesa sono rimasta incinta, tutti in famiglia ne hanno esultato con entusiasmo, soprattutto mia suocera, che non ci sperava più.

Mi chiamo Filomena, ho 23 anni, sono la terza di tredici figli e la prima delle femmine. Sin da adolescente ho aiutato mamma a tirare su i miei fratelli, a volte non so se considerarli tali o dei figli miei.

Sono crescita in una grande casa, si trova proprio all’inizio del paese, da lì si vede tutto il golfo.

Mio padre è impiegato alle poste, è un “guarda fili”, tutti in paese poi, lo hanno soprannominato così. Svolge il suo lavoro, però in città, trascorre tutta la settimana fuori, torna il sabato e riparte la domenica.

Chissà perché, dopo questi rientri, trascorrono delle settimane e mia madre poi, è di nuovo con il pancione.

Mi piaceva studiare da bambina, ma il lavoro a casa mi costringeva a continue assenze e purtroppo non ho potuto dedicare molto tempo allo studio. Avrei voluto fare l’insegnante.

Mamma ci teneva che imparassi un mestiere, mi diceva:

«Impara l’arte e mettila da parte!»

Così mi ha mandata a scuola di cucito e rammendo. Ho imparato bene il lavoro di sarta, a me però, piace di più far rivivere vecchi vestiti, riparando buchi e sfilacciature delle trame delle stoffe.

La casa in cui abito con mio marito, non è molto grande, è un regalo di mio suocero, ne ho molta cura e la sento mia da sempre.

Alle pareti della piccola sala da pranzo ho appeso delle fotografie della mia famiglia, in una sono con mamma, papà e alcuni dei miei fratelli, lì siamo ancora in sei.

Non ricordo chi l’abbia scattata, questa foto ci ritrae al mare. Papà teneva a conservare questi momenti, non accadeva spesso che fossimo tutti insieme.

Trascorrevamo le vacanze nel nostro stesso paese, che ha anche delle località sulla costa. I miei genitori affittavano una casa vicino ad una spiaggia, comoda per noi, era raccolta e mamma poteva controllarci tutti.

Il proprietario è un bel signore corpulento, occhi azzurri, capelli biondi e dei baffi dello stesso colore, non sapevo dargli un’età precisa, mi era molto simpatico, la cosa sembrava reciproca.

Al ritorno dal mare papà si fermava spesso a parlare con lui, raccontava che aveva vissuto in Venezuela, che ancora viaggiava e aveva degli interessi lì e poi c’erano ancora i suoi figli che gestivano un ristorante con le loro famiglie a Caracas, uno di loro, ancora scapolo, sarebbe dovuto tornare da lì a poco.

Mi piaceva ascoltare questi racconti, immaginavo la nave attraversare l’oceano, l’arrivo nel nuovo continente, dove i paesani americani aspettavano le notizie dei parenti rimasti in Italia.

Sapevo che quando qualcuno di loro ritornava nel luogo di origine era sempre una grande festa! Tutti si mobilitavano e si riunivano ora a casa di uno ora a casa di un altro.

Quando papà si fermava a parlare con questo signore, notavo ogni tanto che si affacciava, all’uscio della sua casa, una donna, portava sempre un foulard, che le copriva la testa. Lei non usciva mai, questa cosa mi incuriosiva.

Non sapevo ancora che questi sarebbero diventati i miei suoceri, infatti sposerò qualche tempo dopo l’ultimo figlio di questo signore, lo scapolo.

Concluse le vacanze si tornava in paese e si ricominciava con le solite attività.

Gli anni sono passati, di fratelli nel frattempo ne sono nati altri, ora tutti cresciuti, buona parte sposati.

Pensare a questa foto, oggi mi ha riportato per un attimo nel passato, continuo a sfogliare i ricorsi.

 Il conduttore del telegiornale continua con le notizie sulla politica nazionale e le reazioni al movimento femminista che in questi ultimi anni 60’ è molto attivo.

Mio marito è intento a concludere la cena, non sembra troppo interessato alle notizie, sta pensando alla sveglia dell’indomani mattina, suonerà alle quattro, dovrà andare a ritirare le reti e poi, concluso con il mare inizierà nella tarda mattinata un breve lavoro come imbianchino e sarà impegnato tutto il giorno successivo.

Mi rivedo accarezzarmi il pancione, manca poco al parto, sorrido, penso che ora tocca a me. Ho vito tante volte mia madre con la stessa mia espressione e non sono troppo preoccupata, perché mi sono familiari questi momenti.

Trascorre del tempo, nasce una bambina, mi rimetto presto in piedi, mio marito nel frattempo ha continuato a svolgere l’attività della pesca e quella saltuaria da imbianchino, ma i soldi sono sempre pochi, affrontare tutte le spese sta diventando un grande problema e mi sento impotente.

 Decido di confidarmi con mia madre.

«Mamma, mio marito è molto buono attento con me, mi aiuta tanto in casa con la bambina, ma voglio aiutarlo, mi devo dare da fare e contribuire con uno stipendio. La bambina ha quasi un anno e tra un po’ non allatterò più, voglio andare all’ufficio di collocamento, ho sentito che qui in fabbrica, quella che avevano chiuso! Ti ricordi? Ora ha riaperto, cercano personale».

«Sono contenta della tua decisione, mi sono accorta che da un po’ di tempo sei preoccupata e ti vedo in affanno, ti accompagno volentieri dal “collocatore”, ci darà sicuramente qualche consiglio su come preparare la lettera di presentazione. Avremo però, un problema da risolvere: tuo padre, lo sai che non è d’accordo che voi ragazze andiate a lavorare e che se avete deciso di sposarvi, deve badare a voi vostro marito, proprio come ha fatto lui da sempre con me. Dice! Altrimenti, pensa che sarebbe stato meglio che foste rimaste a casa!»

«Papà ora non ha diritti su di me! Sono sposata! Magari potrebbe dire qualcosa mio marito, ma sono determinata, voglio lavorare e rendermi anche indipendente! Avevo in mente queste idee da diverso tempo, poi ne ho avuto conferma in questi giorni. Al telegiornale non fanno altro che parlare delle femministe e dei diritti delle donne. Ma riflettevo! Queste donne del Nord, non sanno che noi qui al Sud ci comportiamo come gli uomini da sempre! Tu ne sei l’esempio, hai condotto la nostra famiglia proprio come un uomo, perché papà non era mai in casa. Ti sei data da fare! È vero non hai un lavoro che ti dia uno stipendio, ma vendi i prodotti che fai in casa. Ti sei improvvisata ristoratrice, quando gli operai che stavano costruendo la strada, che passa sotto casa, ti hanno chiesto di preparare un piatto caldo per loro, in cambio di pochi spiccioli. Io voglio seguire il tuo esempio!»

Dopo qualche giorno, nonostante mio padre si fosse opposto seriamente alla mia decisione, io e mia madre andiamo all’ufficio di collocamento.

Il “Collocatore” ci accoglie nel suo ufficio e mi incoraggia a scrivere la lettera di presentazione, mi dà le indicazioni per consegnarla alla portineria della novella fabbrica.

Sono soddisfatta della mia decisione, perché sento che la lettera verrà accolta, e ne sono ancora più convinta, dopo aver ascoltato la storia dello stabilimento, raccontata dall’uomo.

Un industriale laniero del Nord Italia, il Conte, lo chiamano così in paese, perché è un vero nobile, seguendo la tradizione della sua famiglia,  che sin dagli anni ’50 si era dedicata al settore tessile, ha deciso di trasferire i propri interessi nel nostro sperduto paesino del Sud, spinto dai contributi statali, offerti dalla famosa Cassa del Mezzogiorno.

Avevo già sentito parlare di questa “Cassa” in famiglia, papà aveva la tessera della DC e così ogni tanto discuteva di politica con mamma.

Questo Conte, continua a raccontare l’impiegato dell’Ufficio di Collocamento, è un vero benefattore, perché quando il settore laniero è entrato in crisi, per continuare a dare un’opportunità all’economia del nostro piccolo centro, ha ceduto lo stabilimento ad un altro industriale, che fabbrica vestiti da uomo e ha sentito dire che sono arrivate molte commesse, c’è tanto lavoro e ce ne sarà nel futuro.

Si vocifera, poi in paese che dei signori eleganti e distinti, impiegati della fabbrica, in questi giorni passino per le case, per cercare giovani donne che sappiano cucire, stirare, scrivere e fare di conto, promettendo uno stipendio fisso al mese: il salario!

Mio marito non si oppone alla mia decisione, anzi mi sostiene, dicendo che se fosse stato necessario, avrebbe badato alla bambina insieme alla mamma. Mia suocera!

Mi tranquillizza, perché non voglio lasciare la mia piccola, ma del resto sono abituata anche a questo, quante volte mia madre lasciava i miei fratelli neonati a me o alla balia di turno, per lavorare.

Lei fa tutto in casa dal pane ai dolci, la pasta, cura gli animali da cortile, ne abbiamo tanti, questi servono al nostro sostentamento. Mamma non compra niente, solo il mangime per le bestie e la farina.

La bambina sta crescendo bene, quando sono in fabbrica sta con il padre e i nonni. È serena.

Ho iniziato a lavorare, anche se è faticoso. Sto molte ore in piedi, ma sopporto il sacrificio. Con il primo stipendio ho comprato dei vestitini per la mia piccola e mio marito ha dei progetti per la casa, vorrebbe ricavare due stanze in più. Ha detto, per un altro figlio eventualmente.

Ora è più sereno perché si dedica soltanto alla pesca e alla figlia, se poi arriva qualche ingaggio per biancheggiare un appartamento lo accetta, ma senza troppo affanno, ora io porto (lo stipendio) i pantaloni a casa e ne sono felice.

Adoro il mio lavoro, sono addetta alla fase finale di lavorazione e confezionamento dei capi di abbigliamento, spesso mi prolungo oltre l’orario per gli straordinari, sono pagati bene e ci servono dei soldi in più. La bambina ha ormai tre anni e sto aspettando un altro figlio. Ho tante amiche con le quali ho un buon rapporto, spesso qualcuna di loro si ferma a mangiare con me a pausa pranzo, non abito molto lontano dalla fabbrica.

Accarezzo questi ricordi, perché è stato un periodo molto felice per me e per la mia famiglia e anche per tutto il territorio circostante al mio paese.

La fabbrica ha rappresentato una speranza anche per i paesi vicini per molti anni.

Purtroppo, proprio come una sorta di eutanasia, così si dice quando sai che è giunta la fine, ma non vuoi soffrire e chiedi che ti somministrino un medicinale che ti addormenti dolcemente, così alla fabbrica è accaduta la stessa cosa.

I fondi della Cassa del mezzogiorno sono finiti, le commesse si sono sempre più esaurite, e tutti i sogni degli operai si sono infranti, ma senza che ne fossero pienamente coscienti.

Dopo alcuni anni di cassaintegrazione, molti colleghi di lavoro si sono licenziati e hanno avuto una buona liquidazione. Ci hanno provato anche con me, mi hanno offerto cifre esorbitanti pur di ottenere il mio licenziamento.

Ma gli ho gridato in faccia:

«Come posso vendere i miei sogni, le mie speranze, la mia felicità e i miei ricordi di giovane donna, che si è emancipata, grazie al coraggio e all’ottimismo di uomini che hanno creduto in noi donne del Sud. Ci hanno dato un sogno e voi oggi volete comprarlo con gli interessi. No! Resto aggrappata gelosamente alla mia vita passata!»

Ora sono in pensione e ancora passo e ripasso davanti a questo posto, osservo i cespugli e le sterpi che avvolgono gelosamente le mura decadenti della fabbrica che rappresentano miei sogni passati, i rovi invece sono le mie braccia che li coprono con avidità.

2 pensieri su “Anche Le Donne Del Sud Portano I Pantaloni


  1. Ancora una volta Maria Carmela da prova di una raffinata narrativa,bello questo racconto di ricordi che attualizza la condizione femminile nel sud e non solo, è sempre un piacere leggerla.


    • E’ la storia di mia madre, una donna moderna, aperta che ha avuto accanto un uomo come mio padre pronto a comprendere le sue necessità di indipendenza.
      Grazie ancora Michele, un onore per me!

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